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Argomenti La politica universitaria di Stefania Giannini: considerazioni, previsioni e speranze

La complessa vicenda delle Abilitazioni Scientifiche Nazionali (ASN), reclama chiarezza

02/04/2014
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ROARS

La complessa vicenda delle Abilitazioni Scientifiche Nazionali (ASN), reclama chiarezza. La chiedono le Università in attesa di reclutare, la chiedono i candidati, in attesa di entrare nei ruoli della docenza, forse la chiedono anche alcuni Commissari, almeno quelli (la maggior parte spero) che non hanno scambiato il rilascio di una patente di guida con la messa in moto di una Ferrari. […] Se i meccanismi non sono sufficientemente agili, agevoli, veloci, il rischio di creare ‘tappi’, ritardi, elefantiasi procedurali e di disattendere le aspettative diventa certezza. E allora non resta che restituire i diritti strappati nel presente […] e immaginare un meccanismo semplice e che dia garanzia di continuità nel futuro. In altri termini, non mi sento di garantire un terzo ‘concorsone’ abilitante.

Così si è espressa Stefania Giannini, ministra dell’Istruzione del  governo Renzi, il 10 marzo, all’inaugurazione dell’anno accademico dell’Università di Padova. Questo passaggio del suo discorso è stato di gran lunga il più discusso tra gli addetti ai lavori. Il tono del giudizio espresso, in effetti, è stato significativo. La ministra ha fatto proprio uno degli elementi di critica più diffusi all’ASN, ovvero la sua trasformazione da verifica dei requisiti minimi per ricoprire un ruolo di insegnamento all’università a “sbarramento” che ha selezionato, in pratica, un numero di candidati non molto superiore a quello che verosimilmente sarà possibile assorbire nei prossimi anni.

Le varie parti in causa hanno interpretato l’annuncio di meccanismi di assunzione più fluidi e più semplici secondo le linee interpretative ormai cristallizzate sulla faglia tra detrattori e sostenitori dell’ASN. Per i primi, la posizione di Giannini indica la presa di coscienza dell’insostenibilità di un sistema in cui un numero ristretto di ordinari, peraltro non rappresentativi della comunità scientifica perché decisi attraverso un complicato processo selezione dall’alto e sorteggio, decidono del futuro professionale di generazioni in modo così netto e senza margini di riparazione. Per i secondi, invece, il ridimensionamento del peso delle abilitazioni è finalizzato essenzialmente a mettere tra parentesi il “criterio del merito” che le ha guidate e a ridare libertà di scelta alle sedi locali, che avranno meno ostacoli a gestire reclutamento e promozioni nei termini di sanatoria di chi ha tirato la carretta garantendo i corsi necessari a tirare avanti e la massa critica dei dipartimenti, magari senza potersi esprimere a livelli di qualità internazionale nella ricerca. Il fatto poi che la ministra, come i suoi due predecessori, sia stata rettrice di un ateneo, ha portato a concludere che il suo impegno per restituire margine di manovra ai governi locali delle università non fosse del tutto innocente, e fosse dovuto ai suoi rapporti con chi in quelle articolazioni amministrative era parte in causa.

A me sembra che la posizione di Giannini da un lato sia ancora troppo superficiale per esprimere una posizione chiara e netta sulla questione dell’ASN, dall’altro sia indice, insieme alle reazioni che ha suscitato, di quanto ancora siano irrisolti i problemi strutturali che negli ultimi decenni hanno reso inefficaci le riforme della politica universitaria.

Nel caso specifico, procedere a una riforma delle abilitazioni può essere, più che un tentativo di affossarle, un passaggio obbligato per rafforzarne la legittimità. Come ho sottolineato in un mio intervento in proposito, coinvolgere nell’ASN porzioni più ampie della comunità accademica, rendere la verifica meno “secca” e unilaterale assimilandola di più all’acquisizione progressiva di titoli, e superare le logiche a tenuta stagna dei settori disciplinari rigidamente suddivisi, sono passaggi migliorativi abbastanza facilmente applicabili che potrebbero rendere più efficiente, e più legittima agli occhi degli studiosi e delle istituzioni.

Bisogna però dire che il punto sollevato in forma esplicita da Giannini con le sue parole, ovvero la tendenza a limitare “artificialmente” il numero dei candidati così da renderlo più o meno compatibile con le presumibili possibilità di assunzione, non è stato il frutto una iniziativa accidentale dei commissari. La scelta di ricorrere a commissioni nazionali di settore aveva proprio l’obiettivo non scritto di “calmierare” la concessione dei titoli di idoneità potendo ragionare sui numeri di tutto il sistema. E del resto anche un sistema amministrato di concessione di idoneità e di selezioni a passaggi progressivi (l’esempio sempre classico, per la sua durata e complessità, è quello francese) ha il compito di limitare il numero di aspiranti docenti e ricercatori universitari rendendolo sostenibile, orientando a volte con la durezza dell’esclusione le scelte di vita e di studio di migliaia di giovani. Costruire passaggi simili con gradualità avrebbe richiesto anni di rodaggio, in una situazione in cui il vecchio sistema di reclutamento era stato cancellato senza soluzioni transitorie, e in cui la necessità di far fronte al crescente bisogno di “braccia” per insegnamento e ricerca portava all’accumulazione di personale precario  in attesa privo di prospettive di stabilizzazione. Si è quindi pensato di bruciare le tappe per smuovere una situazione altrimenti insostenibile, anche di fronte a provvedimenti di riforma, come quelli del 2010, pensati essenzialmente per ridurre in modo rapido e progressivo il regime di spesa degli atenei, senza alcuna reale strategia di rilancio successiva.

In altri termini, la critica della ministra mette il dito su una questione di cui deve essere intesa chiaramente la radice. Sintetizzando al massimo un tema di cui ho già tentato altrove un’analisi più articolata, si può notare in primo luogo che la gestione dell’università italiana si è storicamente giocata sul solco di una reciproca diffidenza: quella tra burocrazia ministeriale centrale e amministrazioni accademiche locali. Le seconde, che in diversi casi preesistevano alla prima e hanno costruito e mantenuto reti di relazione autonome, guardano generalmente al governo come a un importuno controllore del rubinetto del loro ossigeno, che intende disciplinarle politicamente usando l’arma del denaro. Dal canto suo il centro non ha mai avuto particolare fiducia nelle scelte di gestione effettuate localmente, soprattutto nel reclutamento, e pur non avendo mai avuto la forza di imporre una gestione pienamente “nazionalizzata” di concorsi e distribuzioni delle risorse ha sempre cercato di porre paletti e limiti alle possibilità di scelta con norme e circolari.

In questo conflitto sotterraneo i canali di mediazione sono stati opachi e mal congegnati, soprattutto perché si è sempre evitato di esprimere i contrasti di interessi in forma trasparente. Così, l’assetto tradizionale poteva essere descritto come una centralizzazione in cui la competizione tra le sedi locali si dipanava soprattutto nei tentativi di istituire canali informali di contatto con i decisori delle politiche ministeriali così da attirare verso di sé le agognate risorse. La successiva “autonomia”, poi, invece di mettere apertamente a confronto le scelte della politica e la capacità della scienza di organizzare al meglio il proprio lavoro assumendosene le responsabilità, è diventata una sorta di “autogestione”, il “liberi tutti” accordato a comunità locali prive degli strumenti giuridici e culturali di progettarsi da sole, costrette a seguire disegni e strategie pensati dall’alto, ma non più gravate dai lacci di controlli rigidi.

Anche il “sistema ANVUR” si muove su questo equilibrio senza scardinarlo: al di là dei paragoni con agenzie a composizione simile e con presupposti teorici analoghi nel resto d’Europa, nel contesto italiano l’istituto finisce per assumere essenzialmente il ruolo di elemento limitante e disciplinante l’azione del potere delle singole sedi secondo le direttive del ministero. Al di là dello sforzo dei suoi componenti, sicuramente sincero e in parte anche riuscito, di elaborare una tavola di valori della qualità del lavoro scientifico per regolare la distribuzione delle risorse e delle posizioni di ruolo, l’ANVUR si trova di fronte a un ministero che da circa un decennio è privo di una politica universitaria che non sia quella della riduzione della capacità di spesa del settore, così da poter risparmiare il più possibile  al fine di sprecare le stesse risorse altrove. In questo passaggio, troppo spesso il riferimento al “merito” e all’“eccellenza” finisce per essere semplicemente un manto retorico per giustificare il minor impegno economico, mentre sull’altro fronte le sedi hanno compensato la riduzione dei fondi con il mantenimento del controllo su alcuni punti-cardine della loro gestione. L’esempio più lampatne è l’immissione dei precari in ruolo attraverso le tenure track, affidata a commissioni interamente nominate dai Senati accademici e destinata a essere vidimata solo ex post da un’abilitazione nazionale che, se verrà annacquata a “alleggerita”, renderà la paura di un possibile fallimento meno realistica.

È anche per questo che, accogliendo almeno in parte le critiche su un ruolo di limitazione dell’“autogestione” locale che l’ANVUR si trovava a fare al di là delle  sue competenze, ma costretta dalle sollecitazioni dell’amministrazione centrale, e facendo proprie alcune delle critiche delegittimanti che serpeggiavano tra chi temeva che il riferimento all’ASN potesse diventare un ostacolo decisivo per le singole unità accademiche, Giannini è stata vista come una “paladina delle sedi locali”. Sta a lei dimostrare che, con gli interventi annunciati, non intende più muoversi dando per scontato lo storico “equilibrio del terrore” tra centro e periferia che finora non è stato messo in discussione.

Le mie proposte di riforma rafforzativa dell’abilitazione nazionale hanno già delineato, per quel terreno specifico, gli obiettivi strategici che possono caratterizzare un’azione legislativa che senza stravolgere gli assetti istituzionali attuali sia effettivamente riformatrice. Su un piano generale, si possono enunciare così:

  1. Un’operazione di trasparenza e pulizia intellettuale, in cui le esigenze del centro e della periferia vengano espresse apertamente e trovino un luogo istituzionale di mediazione, senza passare per cunicoli sotterranei incontrollabili. La politica, se rappresentativa della società e dei suoi interessi, ha il diritto e il dovere di elaborare strategie di massima sul ruolo dell’università e della ricerca nello sviluppo collettivo; le sedi hanno il diritto di perseguire in autonomia quegli obiettivi con gli strumenti più idonei e la necessaria libertà di progettazione, consapevoli della responsabilità di rendere conto dei loro risultati e delle loro procedure.
  2. Il rafforzamento nella dignità e nel ruolo istituzionale della comunità scientifico-accademica. Quest’ultima è stata spesso messa sul banco degli imputati da un discorso pubblico che individuava nella scarsa pulizia morale dei suoi elementi più rappresentativi i problemi dell’università, e ha salutato con gioia qualunque provvedimento che potesse essere presentato come una loro messa in riga. In realtà queste critiche, che partono da dati reali, scambiano spesso i sintomi per cause. Certi comportamenti sono stati l’adattamento di un gruppo socio-culturale debole e diviso, i cui esponenti hanno potuto intervenire nella gestione del “potere” scientifico e accademico solo appoggiandosi a uno dei due “poteri territoriali”, il centro ministeriale o la periferia locale. In questo modo i settori disciplinari hanno finito spesso per ridursi a playground di mediazione, strenuamente difesi nella loro conformazione dagli studiosi più influenti e rappresentativi perché considerati l’unico loro teatro di azione praticabile. È necessario invertire questa tendenza: se si intende realizzare un sistema universitario che a tutti i livelli esalti competenze, capacità e talento nella produzione e nella diffusione di conoscenza, questi elementi possono essere individuati e “misurati” non da decreti ministeriali, ma dalla comunità che è depositaria di quelle particolari forme del sapere.  Gli studiosi in quanto tali devono quindi essere coinvolti nelle elaborazioni strategiche di alto livello. In una prospettiva a medio-lungo termine la produzione sul piano elettivo, nei diversi campi disciplinari, di qualche sorta di research councils coordinati che interagiscano con il potere politico nell’allocazione delle risorse e si facciano carico della distribuzione dei compiti e della verifica della qualità dei risultati, potrebbe essere un punto di parenza per il vero crack del sistema di governo “bipolare” con l’aggiunta di un terzo elemento davvero strutturato e capace di far valere la sua autorevolezza.

Queste sono realizzazioni che potrebbero dare qualche risultato a lungo termine, senza complicare in modo irrecuperabile il quadro normativo, ma attaccando alcuni elementi di inefficienza. Muoversi in un’ennesima ristrutturazione dei vecchi schemi consolidati, limitandosi a rivedere le “regole d’ingaggio” tra un’amministrazione ministeriale a corto di soldi e comunità locali che cercano di spremerle quanto possibile, non farà altro che causare ulteriori ritardi, da scontare comunque sulla pelle dei soliti noti, e rimandare una gestione delle risorse che manterrà comunque tutte le criticità del passato.

Originariamente pubblicato sul blog A mente fredda de Il Calibro.


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