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AprileOnLine: Se Università ed Enti di Ricerca divenissero le migliori Istituzioni del paese..."

Waler Tocci. Intervento svolto al Convegno Ds, Ricerca e Università: Come migliorare la finanziaria tenutosi a Roma, all'Auditorium di via Rieti, il 27 ottobre 2006

01/11/2006
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Aprileonline

Dobbiamo aiutare il governo soprattutto a capire il problema. La finanziaria infatti dimostra che il nostro governo non ha ancora compreso il problema dell'università e della ricerca. Non lo ha compreso perché lo considera una questione settoriale, una delle tante voci di spesa, e purtroppo anche una delle più trascurate. Il governo non ha capito la cosa fondamentale: la ricerca e l'università costituiscono l'unica via di salvezza del paese, l'unico strumento ancora a disposizione per portare l'Italia nel nuovo mondo che si spalanca davanti a noi, l'unica condizione per assicurare un alto grado di civiltà alla nazione italiana nel secolo che si apre.
E' vero che abbiamo ricevuto l'eredità pesante del deficit pubblico e il pareggio dei conti ci costa 15 miliardi. Ma poi nella finanziaria ci sono ben 19 miliardi per lo sviluppo. E' clamoroso che di questa somma quasi nulla vada alla ricerca pubblica e all'università: le risorse aggiuntive sono compensate dai tagli. E c'è anche da domandarsi di quale sviluppo si stia parlando se manca la ricerca.

E' merito del ministro Mussi aver riconosciuto onestamente la situazione e aver fatto sentire la sua voce forte e chiara nel chiedere un forte correzione.

Purtroppo tutto ciò ha finito per oscurare anche le novità contenute nella finanziaria, che pure ci sono e non sono di poco conto: un piano triennale per riaprire le porte ai giovani ricercatori; forte impulso ai bandi di ricerca; istituzione dell'Agenzia della valutazione; un programma per l'innovazione industriale. Se la Moratti avesse realizzato queste quattro cose le avrebbe raccontate in televisione a reti unificate. Quelli di prima avevano la faccia tosta di raccontare favole mirabolanti anche quanto tagliavano i fondi alla ricerca. A noi invece dispiace e si vede, quando non raggiungiamo gli obiettivi che ci siamo dati. La differenza sembra poca e nell'immediato non appare, ma dirci la verità, come stiamo facendo in questo incontro, è la forza che consentirà di correggere la direzione e riprendere la nostra rotta.

1. Le correzioni prioritarie
Nei prossimi giorni si entrerà nel vivo della discussione nella Commissione Bilancio della Camera. Abbiamo pubblicato i nostri emendamenti per raccogliere eventuali critiche e osservazioni e ne terremo conto con eventuali riformulazioni nella fase deliberativa.

Ci daremo alcune priorità. Prima di tutto si deve cancellare lo sciagurato taglio delle spese intermedie di enti e università. Sono necessari i fondi per assegnare le borse di studio a tutti gli aventi diritto, attuando l'imperativo costituzionale dei capaci e meritevoli.. Si devono raddoppiare, almeno per il 2008, le risorse per l'accesso dei giovani ricercatori: basta spostare 40 milioni dai 300 destinati ai bandi del FIRST. Bisogna cancellare la scivolata del blocco degli stipendi, adottando da subito la riforma degli scatti automatici e attribuendo gli aumenti secondo le qualità e l'impegno delle persone. Ho ricevuto obiezioni a questa proposta. Molti sono preoccupati che a livello di ateneo possa prevalere il nepotismo anche nell'attribuzione degli aumenti stipendiali. Ma la valutazione deve essere una filiera, in alto e in basso, e deve riguardare sia le persone sia le strutture. Se un ateneo si abbandonerà ai favoritismi otterrà cattivi risultati e ne pagherà le conseguenze con minori finanziamenti pubblici. Non escludo che nella fase transitoria si possano creare problemi, saranno comunque inferiori all'ingiustizia attuale che regna da tanti anni e per questo non ci facciamo neppure più caso, ma non è per questo meno grave. Mi riferisco all'aumento uguale per tutti, sia al professore che dalla mattina alla sera si dedica alla ricerca e ai suoi studenti, sia a quello che non mette mai piede nel dipartimento. La transizione dal vecchio al nuovo non è mai facile. Quando si lascia un sentiero tortuoso bisogna arrampicarsi sui dirupi prima di trovare la strada piana che poi però consentirà di camminare meglio.

Dobbiamo liberare gli enti di ricerca dalla cappa di piombo burocratica costruita dal precedente governo. Francamente non è stata una bella idea quella contenuta nell'articolo 42 che affida la gestione agli attuali burocrati, togliendo di mezzo gli scienziati. Proponemmo nel programma elettorale l'autonomia statutaria degli Enti di ricerca e la conseguente delegificazione del settore. Vogliamo lasciare libere le comunità scientifiche di organizzarsi come ritengono utile e poi saranno valutate sui risultati. Purtroppo abbiamo perso per strada quell'idea e anzi siamo arrivati a scrivere l'opposto nel decreto che accompagna la finanziaria. Dall'autonomia statuaria degli enti siamo passati all'autonomia regolamentare del governo. Finché c'è Mussi possiamo stare tranquilli, ma se lo facesse un altro governo diventerebbe un micidiale strumento di controllo politico sulla ricerca. Stiamo attenti a non fissare pericolosi precedenti, le regole vanno oltre i governi, non dimentichiamolo. Ma soprattutto avevamo detto che non avremmo messo in cantiere la terza riforma degli enti dopo quella di Berlinguer e della Moratti e invece l'emendamento al decreto ripropone la stessa base giuridica (la legge Bassanini del 1997) che diede luogo a quelle ristrutturazioni, certo diverse tra loro, ma entrambe da superare con la nuova impostazione basata sull'autonomia statutaria e sul finanziamento collegato ai risultati scientifici.

A proposito di regole una buona notizia viene dall'Agenzia spaziale. Finalmente ci siamo liberati della caotica gestione di Vetrella. Per nominare il nuovo presidente non si è convocata la riunione dei partiti di maggioranza, ma il ministro ha chiamato un comitato di saggi per scegliere una persona di valore che sappia restituire credibilità internazionale alla nostra agenzia.

Purtroppo non si è riusciti a fare altrettanto al CNR, anzi Pistella continua quotidianamente a dare colpi alla qualità e al prestigio del più importante ente di ricerca nazionale. Bisogna fermarlo prima possibile, anche ricorrendo ad una motivata direttiva ministeriale, altrimenti troveranno solo macerie quando gli scienziati torneranno a presiedere l'ente.

2. Per continuare ad essere un grande paese
Queste sono le priorità, le correzioni che dobbiamo apportare nelle prossime settimane. Bene, se riusciremo nell'impresa sarà un'ottima notizia, ma saremmo solo all'inizio. E la strada da fare è lunga e impervia.

Tutte le cose fin qui dette sono importanti finché rimaniamo con lo sguardo rivolto al cortile di casa, ai piccoli problemi italiani, agli estenuanti dibattiti che ci trasciniamo da tempo.

Tutto cambia, invece, se alziamo lo sguardo oltre i patri confini, verso il mondo del XXI secolo dove si svolge da tempo una formidabile competizione scientifica e tecnologica. Negli ultimi 15 anni l'investimento totale per la ricerca mondiale è quasi triplicato mentre l'Italia si permetteva il lusso di diminuirla. Non viviamo tempi normali, ma siamo immersi in vere e proprie rivoluzioni nelle scienze della vita, della materia e dell'informazione. Non si tratta solo di innovazioni, ma di veri e propri mutamenti di paradigma delle conoscenze. In queste condizioni se non si curano i giacimenti si rimane a secco, si rischia di scomparire dalla scena internazionale.

Ci preoccupiamo delle magliette cinesi ma l'investimento in ricerca di quel paese ha giù superato il livello dei singoli stati europei. Eppure i nostri partner europei hanno capito il problema e provano a reagire. Zapatero ha presentato la sua finanziaria con una sola priorità: aumentare l'anno prossimo l'investimento in ricerca per il 30%. Certo quel paese ha un debito accumulato del 60% sul Pil e noi che superiamo il 100% abbiamo margini inferiori, ma proprio per questo dovremmo darci priorità più selettive, senza abbandonarci ad una finanziaria di oltre duecento articoli.

Tutto è in movimento nel mondo e noi rischiamo di rimanere indietro. Mentre discutiamo dello stato giuridico dei professori e del regolamento degli enti, è in gioco qualcosa di grande, è in discussione il rango della nazione italiana nei prossimi anni. Per dirla in breve: l'Italia rischia di diventare un piccolo paese in un mondo sempre più grande, dopo essere stata per tanto tempo un grande paese nel piccolo mondo della guerra fredda.

Diventammo grandi nel dopoguerra con il miracolo economico che fu anche una grande innovazione scientifica e tecnologica: la plastica di Natta, il primo satellite europeo nello spazio, il computer Olivetti prima degli americani, la grande scuola di fisica, l'Istituto Superiore di Sanità crocevia di diversi Nobel, la lungimiranza di Ippolito, ecc.

Siamo capaci di ripetere un simile miracolo nell'epoca della conoscenza? Questo il bivio in cui si trova l'Italia. Se non ne saremo capaci diventerà inevitabile la decadenza italiana, se invece ci riusciremo potremo realizzare una nuova fase di prosperità economica e culturale.

Tutto dipende da ciò che faremo in questi anni con il governo Prodi. E siccome la sfida è nel campo della conoscenza tutto dipende da ciò che faremo nell'università e nella ricerca.

Se questa è la portata dei problemi, non sarà sufficiente qualche emendamento, qualche miglioria, pur sempre apprezzabile, qualche passo avanti che non modifica il tran tran quotidiano.

Abbiamo bisogno di cose mai viste prima, di soluzioni non ancora immaginate, di un coraggio senza limiti. La misura del cambiamento dovrebbe essere questa: trasformare radicalmente enti di ricerca e università al punto tale che si possa dire tra qualche anno: ecco, queste sono le migliori istituzioni del paese.

Che cosa significa le migliori istituzioni? Purtroppo non ci sono molti esempi nella storia nazionale, se non a sprazzi qua e là. Enti e università dovrebbero raggiungere il rigore che fu della Banca d'Italia di un tempo, la fiducia nei Carabinieri di una volta, il consenso popolare verso la nazionale di calcio, il prestigio internazionale del cinema italiano nella sua migliore stagione.

Se questa è l'asticella dovremmo allenarci duramente per saltarla. Diciamoci la verità siamo molto lontani da questi livelli. Eppure all'interno ci sarebbero le risorse intellettuali e civili per riuscire nell'impresa, ma sono ingabbiate nella burocrazia, nel consociativismo accademico, nel gattopardismo italiano.

Le virtù dell'università italiana sono frenate dai vizi dell'accademia. I migliori portano il peso dei peggiori, come un giogo sul collo. Dobbiamo spezzare queste catene e liberare le migliori energie. Non credo che basti una gestione ordinaria, ci vuole un vero big-bang che crei nuove orbite e nuove costellazioni.

3. Le conseguenze della valutazione
La scossa può venire dalla valutazione, se l'applicheremo in modo conseguente. L'istituzione di un'agenzia non è soprammobile che poggiamo sopra l'esistente. Spesso in Italia si creano nuove strutture senza cambiare le precedenti, così abbiamo dato poteri alle regioni senza alleggerire i ministeri. Le nostre riforme istituzionali sono come il prosciutto di una volta: non si butta via niente.

Al contrario, una volta costituita l'Agenzia, dovremmo cancellare gran parte delle leggi attuali che appesantiscono l'università e gli enti, dovremmo alleggerire il ministero fino a farne una struttura di sola programmazione, dovremmo prendere l'impegno di non scrivere più finanziarie che si accaniscono a legiferare il turn over, le sedi universitarie, le bollette della luce e così via.

La migliore legge per la ricerca non è quella che pretende di imporre il bene, di questa specie ne abbiamo viste tante e hanno ottenuto quasi sempre il male, ma quella che lascia libero ateneo o l'ente anche di sbagliare, purché sia garantito che poi ne paghi le conseguenze oppure ne ottenga un premio, secondo la qualità dei risultati.

Abbiamo chiesto soldi per questa nuova università e per questi nuovi enti, non per le vecchie strutture, ma forse non ci siamo spiegati bene. Nell'attuale finanziaria non ci sono soldi alla ricerca pubblica perché prevale un atteggiamento di sfiducia verso di essa. Non è un caso infatti che i bilanci di atenei ed enti abbiano subito tagli (meno 200 milioni sulle spese intermedie e più 100 su FFO, uguale a meno 100) e le poche risorse aggiuntive siano state allocate solo nei bandi di ricerca e negli incentivi alle imprese (300 milioni sui primi e 750 sui secondi, più di un miliardo di euro). Il messaggio è purtroppo molto chiaro: non vi diamo soldi direttamente, se volete i finanziamenti andate a prenderli dalle imprese o dai bandi.

Può sembrare una linea ragionevole e invece è un modo per rendere ancora più piccola la ricerca italiana nella competizione internazionale. Infatti, la vera anomalia italiana consiste nella debolezza della ricerca privata che è molto più bassa di quella pubblica, non ci sono altri paesi occidentali con un simile squilibrio. Questo vuol dire che certamente deve essere una priorità aiutare l'industria a fare ricerca, ma non può essere che proprio il punto debole del sistema diventa uno dei pochi canali di finanziamento della ricerca pubblica. Usare la debolezza per distribuire risorse ai punti di forza è solo segno di autolesionismo, malamente coperto da un'ideologia privatistica più realista del re, che non trova riscontro neppure nelle proposte di Confindustria. Un suo autorevole rappresentante, l'ing. Rocca, aveva rivolto un appello al governo per togliere 500 milioni dal cuneo fiscale e impegnarlo a favore dell'università. Sarebbe stato interessante andare a vedere le carte di questa giocata.

Anche il canale dei bandi di ricerca può diventare una debolezza se rimane l'unica modalità di finanziamento diretto per enti e università. Non sfugge il suo valore, soprattutto se si riesce a ripristinare la serietà dei panel di valutazione, ma comunque è uno strumento lento, macchinoso e spesso aleatorio nella tempistica. I migliori laboratori o dipartimenti dovrebbero essere finanziati direttamente, senza costringerli a complesse procedure nella presentazione dei progetti, ma soltanto sulla base del curriculum scientifico che attesta la qualità della ricerca che svolgono. L'Agenzia di valutazione, infatti, fornirà annualmente un bench-marking delle strutture, in base al quale si potrà assegnare una quota crescente dei fondi statali per la ricerca in modo semplice e tempestivo. Non possiamo pensare che i nostri migliori enti o atenei vincano la competizione internazionale solo ricorrendo ai bandi o aspettando il finanziamento delle imprese. Se vogliamo aiutare le migliori strutture di ricerca ad avere voce in capitolo nel mondo dobbiamo finanziarle direttamente secondo il merito, in modo che possano con questi fondi intraprendere proprie strategie di posizionamento sulle frontiere della conoscenza.

4. Fiducia nella ricerca italiana
Ci sono in Italia questi punti alti della ricerca? Certo, sono tanti e rischiamo di non vederli se accediamo alla vulgata giornalistica che dipinge tutto il sistema come un gran casino. Questi lamenti generici e i tagli che ne conseguono non impensieriscono i fannulloni, ma feriscono i migliori nell'onore e nella pratica. Bisogna partire dalla fiducia in quello che c'è di buono nella ricerca pubblica italiana per valorizzarlo e aiutarlo a crescere. Se invece prevale la sfiducia cieca si rischia di indebolire ulteriormente le possibilità di successo del nostro paese.

Purtroppo sin qui ha vinto la sfiducia. Non siamo riusciti a spezzare la convergenza oggettiva tra chi non vuole cambiare nulla e chi usa questa paralisi come alibi per non finanziare la ricerca e l'università.

Il riformismo deve combattere su due fronti, sia la resistenza sia la sfiducia verso il cambiamento. Entrambe allignano sia nella classe politica sia nel mondo accademico. Nella politica non è bastato il cambio di governo per capire la svolta necessaria. D'altro canto questo è l'unico governo che può realizzarla e quindi occorrerà nei prossimi mesi riprendere la discussione e far maturare la consapevolezza della posta in gioco.

Ma c'è una forza di richiamo della vecchia mentalità anche dentro il mondo accademico: tanti consiglieri del principe che agiscono nell'ombra, professori di economia colti da furia edipica verso le strutture che li hanno allevati, burocrazie universitarie che vogliono il nuovo solo a parole.

Questa miscela di resistenza e sfiducia verso il cambiamento trova alimento nella gerontocrazia che ha pervaso le strutture della conoscenza. Riaprire le porte ai giovani non significa solo sbloccare i concorsi, non è solo quantità, ma è qualità. Domandiamoci quanto pesano i giovani nelle università e negli enti. Mai è stata così bassa la certezza di vedere riconosciuti i meriti e l'autonomia della ricerca. Un'inversione di tendenza poteva venire dalla proposta Modica di un concorso nuovo e straordinario in cui è il ricercatore a scegliere l'università e l'ente. Sarebbe stata una breccia capace di liberare tanti giovani da condizionamenti baronali e da lobbies consolidate.

Dobbiamo tornare a vedere trentenni in gamba che vanno in cattedra, che guidano programmi di ricerca, che aprono nuove vie alla conoscenza. La dialettica generazionale, il cozzo delle idee tra maestri e allievi, la trasmissione e la rielaborazione dei saperi sono tutti meccanismi generatori di creatività. E anche la vita quotidiana di università ed enti, le modalità di gestione, i progetti di innovazione sarebbero molto più vivaci se si facesse sentire maggiormente la dialettica generazionale

Dobbiamo convincere i giovani ricercatori italiani che questo è il loro Paese e che il Paese ha bisogno di loro. Di queste energie creative abbiamo bisogno per dare un futuro all'Italia. Siamo ancora in tempo per fare una grande politica dell'università e della ricerca.

Non possiamo sbagliare. Le generazioni successive non ce lo perdonerebbero.


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