Aprileonline: Riforma Gelmini: ovvero l'università secondo il ragioniere
La riforma universitaria abbozzata dal ministro Gelmini contiene alcune cose buone che servono prevalentemente a mascherare la tendenza alla formazione di un sistema universitario pubblico sempre più anemico e diseguale. Diseguale sia dal punto di vista della sua distribuzione sul territorio nazionale, sia dal punto di vista delle opportunità formative offerte ai singoli studenti
Giuliano Garavini
Il disegno di legge Gelmini rievoca il dibattito sulla politica economica al tempo del governo Prodi II. Si diceva: nella prima fase razionalizzazione e tagli alla spesa per stare nell'euro, nella fase due investimenti nella crescita e nel futuro dell'Italia. Per Prodi si sa com'è andata a finire. Per la Gelmini la fase due non è nemmeno contemplata e la politica sull'educazione si esaurisce totalmente nella fase uno: razionalizzazione e tagli.
Le cose buone del disegno Gelmini, come ha puntualmente rimarcato in un suo commento Salvatore Settis , stanno: nella scelta dello strumento del disegno di legge - che prevede la possibilità di interventi migliorativi in Parlamento -, nell'ipotesi di costituzione di una lista di idoneità nazionale dalla quale scegliere ricercatori e professori, nell'introduzione di un sistema tipo "tenure track" per facilitare la carriera dei ricercatori, nella riduzione dei raggruppamenti disciplinari e dei corsi di laurea che si erano moltiplicati in modo anarchico negli anni passati a discapito della qualità, nella stretta contro le lauree privilegiate a dipendenti di pubbliche amministrazioni.
Ma quanto c'è di buono appare ben poca cosa rispetto alle ombre che il disegno legge non aiuta a dissipare e alle tenebre che fa prefigurare introducendo nuovi istituti e meccanismi da ragioneria contabile. L'università italiana è vecchia nel suo corpo docente e sottofinanziata sul piano della ricerca rispetto alle università degli altri paesi industrializzati. In questo contesto la legge 133 ha previsto, tra una voce e l'altra, tagli alla spesa pari a circa 4 miliardi in 5 anni. La normativa sul "turn over", imposta dal ministro dell'Economia, è stata solo addolcita per l'università, ma significa comunque che meno della metà dei professori che lasciano potranno essere sostituiti da giovani motivati e preparati. Il premio alle università più "produttive" viene attribuito in questo contesto di tagli e significa semplicemente che la sempre più scarsa acqua disponbile per irrorare il terreno della formazione e della ricerca universitaria verrà utilizzata per far sopravvivere alcune terre lasciando le altre, in primo luogo nel Mezzogiorno, ai cardi.
L'impronta principale della riforma universitaria è quella del controllo tecnico-finanziario sulla didattica e la ricerca. Un'agenzia dipendente dal ministero del Tesoro (che c'entra il Tesoro?) deciderà sulle borse di studio per gli studenti più meritevoli. Il Consiglio di amministrazione dell'università, nel quale almeno il 40 per cento dei membri deve provenire dall'esterno del mondo accademico (fondazioni private, banche, imprese etc.), deciderà sulla programmazione finanziaria annuale e triennale e su quella strategica. Un'altra agenzia, sempre con un occhio di riguardo alla virtuosità finanziaria, stabilirà le università da premiare con fondi aggiuntivi. Non si capisce bene perché questo sistema, oltre a far risparmiare soldi e magari consentire l'assunzione di qualche raccomandato da un'impresa o fondazioni bancaria, dovrebbe migliorare la qualità dell'insegnamento e della ricerca e contribuire a placare la costante ma inesorabile trasformazione dell'Italia in una società classista, in cui i figli dei privilegiati restano tali e quelli degli emarginati non riescono ad emergere perché il sistema educativo non conta nulla. C'è poi un tentativo di controllo del lavoro dei docenti che implicherà più che altro un enorme dispendio di energie burocratiche, aggiungendo molti moduli e timbrature di cartellini alle scrivanie già sovraccariche di burocrazia dei professori universitari.
Più controllo per chi lavora e niente di niente rispetto a quella gigantesca massa di lavoro qualificato e precario che preme alle porte dell'universitàe che costituisce il suo presente e il suo futuro. Sono circa 48mila i docenti a contratto e circa 15 mila assegnisti di ricerca che hanno trattamenti assolutamente incongrui e mortificanti rispetto al personale che svolge lo stesso lavoro e con le medesime responsabilità. A questo proposito un contributo importante è venuto recentemente nel documento conclusivo della Giornata Nazionale del Ricercatore Scientifico che si è svolta presso l'Università della Calabria - un'istituzione pubblica che potremmo definire di frontiera - nel quale fra le altre cose si propone:
- Piano straordinario di reclutamento di ricercatori a tempo indeterminato e pianificazione relativa al reclutamento ordinario;
- Introduzione dell'obbligo, per gli Organi di governo delle Università, dell'istituzione dell?Anagrafe dei ricercatori e docenti precari presenti in ogni ateneo;
- Adozione di un'unica forma contrattuale per i ricercatori e docenti non strutturati, che assicuri il diritto alla giusta remunerazione e alle relative tutele giuridiche, al pari di un rapporto di lavoro subordinato;
- Accesso di tutti i ricercatori precari ai finanziamenti per progetti di ricerca di cui assumere la titolarità;
- Sblocco delle procedure dei fondi Firb già banditi, con l'immediata nomina della commissione di valutazione e, per il futuro, rafforzamento del bando Firb, con l'eliminazione dei limite d'età per i ricercatori non strutturati;
Dalla battaglia dei giovani docenti e ricercatori precari per i propri diritti e per qualche supporto rispetto al proprio impegno potranno venire indicazione anche per il futuro dell'università a patto che questa battaglia non esaurisca in singoli episodi di protesta, plateali quanto spesso inconcludenti, ma riesca a bloccare strutturalmente, anche con l'organizzazione di scioperi, la didattica universitaria. Allo stesso spetta anche a docenti e ricercatori precari la responsabilità di formulare concrete proposte per la modifica del sistema universitario il cui prestigio sembra in costante declino e non semplicemente la rivendicazione un'inclusione di massa nel mondo dei garantiti, magari attraverso meccanismi "ope legis" che tanto dannosi si sono rivelati in passato.