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AprileOnLine: Ricerca e sviluppo: prima l’uovo o la gallina?

Innovazione. L'economia italiana è di fronte ad alcune fondamentali scelte per il prossimo futuro. Bisogna però abbandonare le solite sterili ‘litanie’

07/06/2006
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Aprileonline

Marina Montacutelli

Qualche giorno fa un gruppo di ricercatori inglesi un po’ burloni ha deciso di occuparsi dell’uovo e della gallina; ebbene, per la madre di tutte le risposte: pare sia nato prima l’uovo.
Non altrettanto risolta può dirsi, invece, la relazione tra ricerca, formazione, innovazione e sviluppo di cui ha parlato Draghi nella sua relazione alla Banca d’Italia: resta, temo, una questione “impagliata”, appunto, tra uovo e gallina. Vengono prima, infatti, la ricerca (magari coniugata con l’aggettivo “puro”, come se potesse dirsi altrimenti) e la formazione, che producono poi il circuito virtuoso dell’innovazione - e dunque dello sviluppo - o ciò dipende da una difficoltà a porre la domanda di innovazione, dunque di ricerca e formazione?
Prescindo, perché pleonastico, dalle comunque imprescindibili questioni etico-politiche: credo sia infatti implicito che uno Stato che abdichi i proprio doveri di ricerca e formazione, trasferendoli magari subdolamente sul piano delle tante opzioni possibili - ossia uno Stato che non conceda e riconosca ai propri cittadini eguaglianza di opportunità e di diritti, nonché la possibilità di espanderli e valorizzarli – ha presentato, semplicemente, le dimissioni dalla propria funzione precipua. “Formare”, cioè fornire pari condizioni - indipendentemente dall’estrazione di genere, socio-economica o geografica – di accedere al sapere e di contribuire con quello stesso sapere allo sviluppo individuale e collettivo, è proprio il primo dei “doveri” di uno Stato che voglia configurarsi, e farsi riconoscere nonché legittimare, come tale.
La scuola e l’università devono, dunque, rispondere in primis non alle esigenze del mercato del lavoro e del sistema economico ma, come diceva quel pericoloso rivoluzionario di Diderot, liberare gli esseri umani dalla peggiore delle servitù: l’ignoranza. Lo afferma persino – a modo suo, né potrebbe essere altrimenti - la relazione del Governatore, sulla quale altri si sono soffermati e ben più autorevolmente, che ha denunciato la forte correlazione tra “il successo scolastico nella scuola superiore e all’università alle condizioni della famiglia di provenienza”, sottolineando altresì la necessità di colmare lo svantaggio sistematico e crescente prodotto dalla mancanza di capitale umano indotta dal sostanziale abbassamento della soglia di conoscenza. Ciò produce infatti un depauperamento del Paese, dunque dei suoi cittadini e delle sue imprese. Ossia: se siamo ignoranti, siamo anche tutti più poveri. Una delle grandi “fatiche” del secolo scorso, e delle sue lotte, è stata infatti quella di trasformare il sapere, e le istituzioni che lo trasmettono, da merce di scambio (soggetta pure a valore d’uso) in diritto per tutti.
Tuttavia, può questo diritto (all’istruzione, al sapere) contribuire anche allo sviluppo? E come? Draghi ci dà la sua ricetta e aggiunge, come tanti: affinché la produttività torni a crescere occorrono “innovazione e investimenti in ricerca e in tecnologia; imprenditori che abbiano il coraggio e la lungimiranza di non essere passivi di fronte alle difficoltà e di cogliere il momento per cambiare il modo di operare delle proprie imprese”, giacché “la stasi della produttività è connessa anche con la carenza di capitale umano”.
Bene, anzi benissimo. Ma è la solita litania, che hanno capito pure i muri.
Il problema è che tutto ciò si risolve in investimenti in ricerca e formazione dati con il contagocce, senza alcuna volontà di selezionare (prima) e di valutare (dopo). Così, alla fine, tutto si scioglie in eventi ormai soprattutto mediatici; e nei soliti ricercatori poverelli e smagriti anche nelle proprie ambizioni intellettuali.
Davvero per rilanciare lo sviluppo e la competitività internazionale basta miscelare investimenti in ricerca con la crescita dimensionale delle imprese e il riorientamento della loro specializzazione produttiva, come suggerisce? Spazzar via, cioè, il “piccolo è bello” ma in un mondo “globale”, da parte di un Paese privo di fonti energetiche, uso ai servizi e alla loro trasformazione, con una classe imprenditoriale spaventata, spesso incolta, frequentemente predatrice, usa alla logica dell’arraffa oggi ché del doman non v’è certezza? E poi, quale ricerca chiedono le imprese?
Perché la sensazione, per cercare di andare oltre la litania e provare a capire “come fare” per uscire da una situazione che suona – dal punto di vista economico - sempre più di pentole argentine giacché siamo banalmente sulla soglia della bancarotta, è che ci ripropongano sempre il problema dell’uovo e della gallina: che non genera – naturalmente – proprio niente. Né formazione, né sviluppo; né crescita, né competitività. E comunque: cosa deve venir prima, quali le priorità per il governo tutto e non solo per il Ministro Mussi?
Intanto, nella grande confusione e nell’infinita approssimazione, qualcuno dovrebbe prima o poi spiegare ai contribuenti per quale ragione la dotazione di ingegni che producono innovazione (dunque vantaggio comparato, dunque profitto di impresa) debba essere pagata da loro e non da un’azienda che ci guadagna e magari di lì a poco “delocalizza”. Le imprese lillipuziane nostrane, impossibilitate a fare investimenti in ricerca ma bisognose della redditività del capitale umano, si affidano infatti allo Stato (cioè a noi) per averli, al fine di far partorire l’uovo dell’invenzione che usano loro. Detto altrimenti: noi paghiamo, loro innovano - e guadagnano. Certo, nel lungo periodo potremmo trarne vantaggio tutti, in termini di crezione di valore, di ricchezza collettiva.
Ma qui sorge il dubbio, giacché le stesse imprese lillipuziane non sono affatto interessate ad un’innovazione (e dunque a un trasferimento tecnologico) che colmi lo svantaggio sistematico, ma prevalentemente a limitare la slavina in cui stanno – e stiamo – precipitando: perciò abbassano il baricentro e si pongono al più il problema di un’innovazione incrementale e non, invece, di un’innovazione radicale. Dove andiamo così, in un Paese come il nostro non solo afflitto dal nanismo industriale ma appunto dalla storica propensione ai servizi o, al più, all’attività di trasformazione? Dove, quando la tendenza generale è alla crescente terziarizzazione dell’occupazione ed esternalizzazione – quando non il trasferimento – dei servizi stessi?
In altri termini, la sensazione – quando si parla di formazione del capitale umano e investimenti in ricerca e sviluppo – è che le cose non siano messe in relazione nel modo giusto. E sembra il gioco dei quattro cantoni. Da una parte lo Stato, che dovrebbe investire in ricerca e sviluppo e non solo per ragioni “etiche”; dall’altra le imprese, che non investono e che guardano al più alla frontiera dell’oggi perché non si pongono il problema di vantaggi di costo o di qualità decisivi, ma cercano piuttosto innovazioni di prodotto – o al massimo di processo – che di sviluppo ne producono ben poco.
Uno dei tanti interrogativi che bisognerebbe porsi, per non continuare a blaterare soltanto che servono più investimenti in ricerca (vero, anzi verissimo) per esaltare la competitività imprenditoriale e dunque tornare a crescere come Paese, è quello ad esempio se la domanda e l’offerta di innovazione siano, invece, messe in valore producente – quantomeno - reciprocità sul piano dei vantaggi; oppure, se le imprese italiane siano in grado e interessate, “capaci” di chiedere innovazione, o se – invece – l’onere (ovvero la colpa dell’improduttivià, cioè del ristagno economico) ricada sempre sugli oziosi ricercatori che, chiusi nei loro (peraltro fatiscenti) laboratori, non hanno voglia di offrirla l’innovazione, e dunque occuparsi dello sviluppo; infine, se davvero in un mondo globale e globalizzato (come è da non pochi secoli) la frontiera concettuale e poi politica da assumere e proporre, per raddrizzar l’economia, sia quella del territorio local-locale – il che potrebbe rivelarsi, viceversa, l’ennesima istigazione al piccin-piccino del campanile, sia pur col vestito nuovo dei patti imprenditoriali o come si chiameranno.
Recentemente Paolo Saracco – ponendosi questi problemi anche in relazione agli incubatori d’impresa che dovrebbero essere indirizzati verso settori ad alto contenuto tecnologico e di conoscenza – ha ribadito la necessità di un forte coordinamento (tra le istituzioni coinvolte, gli obiettivi e gli strumenti operativi da adottare) che richiede, necessariamente, consapevolezza e condivisione sugli obiettivi di medio e lungo periodo. Come e con quali forme, dunque, passare dalle competenze al trasferimento tecnologico, chi deve pagare tutto questo e per andare in quale direzione. “E’ – scrive – una battaglia prima di tutto culturale”. Siamo all’altezza e ci interessa questa battaglia? L’innovazione produce occupazione (che è un bene per tutti) e la sua fonte pressoché esclusiva è davvero la ricerca, ma questo non basta. Soprattutto, e non solo per fondamentali ragioni etiche, le università e i centri di ricerca non possono diventare i centri studi di questa o quell’azienda, magari per un prodotto “mordi e fuggi”, o sollecitati o istigati o obbligati ad un’innovazione quando va bene ornamentale.
Perché non paghino sempre i soliti noti, e senza alcuna prospettiva.


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