AprileOnLine: Luigi Berlinguer e la scuola che non c'è
Il rischio di separare definitivamente dalle correnti culturali europee la più grande fabbrica di conoscenza del paese per renderla mero strumento di collocamento lavorativo territoriale è di fronte a tutti noi. Superarlo significa ritrovare le ragioni profonde dell'istituzione scolastica nella società contemporanea
Anna Riccardi, Mariachiara Grauso* , 27 luglio 2007
Ci sentiamo amareggiate di fronte alle parole dell'ex ministro Berlinguer, perché ancora una volta si cerca di delineare e sviluppare un'idea di scuola che non esiste, che è presente soltanto nei suoi pensieri, tralasciando di investire e pensare alla scuola che c'è, a come questa può funzionare per il benessere della società.
Come già osservato dalla Sasso è completamente assente dalla riflessione politica il corpo vivo dell'istituzione scolastica, mancano gli insegnanti (e magari le loro legittime aspirazioni ad uno stipendio dignitoso, per dirla con Citati), mancano gli studenti e la loro inaspettata ed emergente inabilità ad esprimersi in assenza di un telefonino o di una telecamera che li riprenda. Manca soprattutto una seria analisi della marginalizzazione e della condizione di minorità che la scuola di oggi sta assumendo nella nostra società.
Non sono tanto il sapere o il saper fare i fulcri attorno ai quali dovrebbe muoversi la riflessione sui contenuti e le abilità offerte ai ragazzi nelle nostre scuole quanto il ragionamento sul perché questi sapere o saper fare non sono più sentiti dalla popolazione (dal popolo tutto) come mezzo di emancipazione sociale.
Oggi come oggi per tanti la scuola risulta essere un mero passaggio obbligato, prima della vera scelta formativa (sia quella universitaria o quella per il lavoro). La storia ci insegna che puoi rincorrere i ragazzi, capirli, adeguare la scuola alle loro aspirazioni quando la scuola la sentono come una cosa loro, qualcosa che gli appartiene, non quando non ne sentono più la necessità, quando si trasforma in un luogo qualunque dove passare del tempo possibilmente senza troppi problemi.
E non è affatto vero che manca competenza nella classe docente, in realtà spesso disorientata su tempi, metodi, nuove direttive schizofreniche e vecchi saperi riemergenti.
In questi anni sta entrando nelle aule una nuova generazione di docenti figlia di lunghi studi universitari, selezioni, specializzazioni, frustrata in partenza dall'infimo ruolo sociale che le è riservato.
La realtà è che falliremo fino a quando cercheremo di adeguare la scuola alla visione che si crea e si costruisce nell'immaginario collettivo e invece riusciremo a salvarla se cercheremo di capire e investire nella ricerca del nuovo ruolo che essa deve e può avere nella nostra società. E' una ricerca politica, di quella politica capace di guardare oltre e di giocarsi la faccia su di una sfida: ritornare a far essere la scuola pubblica, laica e popolare, un mezzo per i sogni e le speranze degli individui. Sogni e speranze che non dobbiamo e non potremo mai soddisfare presi di volta in volta nella loro singolarità.
Francamente stucchevole la solita diatriba tra scuola di massa di bassa qualità e scuola d'elite di qualità; come se nel confronto tra le diverse capacità e i diversi livelli culturali di base vi fosse un disvalore e non bensì un valore da salvaguardare e promuovere nell'ambito della costruzione di una comunità che miri a riconoscere, adesso sì, il diverso e lo svantaggiato come parte integrante di se stessa, ineludibile e arricchente. Insomma non l'assecondare il pervasivo e disgregante individualismo (mascherato da libertà) che si annida nella società in questo scorcio di inizio secolo, ma cercare di ritrovare le ragioni della crescita nella comunità, insieme all'altro e non contro l'altro. Questo il compito della sinistra oggi.
A questa disgregazione ha contribuito nondimeno il miraggio dell'autonomia. La deriva aziendalista declinata nel territorialismo nostrano ha portato all'emergere di un nuovo provincialismo che mette le scuole in competizione apparente le une con le altre, ed è ovvio che in queste condizioni siano le vecchie concezioni classiste a farla da padrone. L'unità di intenti, di direttive, di investimenti, di saperi proposti forniva a ciascuno la possibilità di sentirsi parte integrante di un progetto che mirava al miglioramento e alla moltiplicazione delle proprie possibilità.
L'idea di un'uguaglianza nel processo di formazione permetteva all'alunno di concepire se stesso e il proprio futuro svincolato da qualunque rapporto viziato con il territorio e con gli attori che in esso operano e si muovono, sapeva conferire alle persone lo slancio nella scelta dei percorsi da intraprendere confortate dalla solidità e dall'ampiezza di un orizzonte nazionale ed europeo. Il rischio di separare definitivamente dalle correnti culturali europee la più grande fabbrica di conoscenza del paese per renderla mero strumento di collocamento lavorativo territoriale è di fronte a tutti noi. Superarlo significa ritrovare le ragioni profonde dell'istituzione scolastica nella società contemporanea.
*insegnanti precarie