AprileOnLine: La società della conoscenza?
Come può premiare il merito, la capacità, l'impegno una società così tanto permeata della cultura dell'apparire e dell'avere?
Beniamino Ginatempo, 18 giugno 2007
Al di là di quello che reclama Montezemolo a parole, oggi questa società neo-liberista, che liberale non è e non intende diventarlo, non ti premia per quello che sei, per quello che conosci, per quello che sai fare. Come può premiare il merito, la capacità, l'impegno una società così tanto permeata della cultura dell'apparire e dell'avere?
Si sente dire che viviamo nella società della conoscenza. Da più parti, da tutti i media ed i commentatori, da tutte le parti politiche, sia da Confindustria che dai sindacati si sente dire che la quantità e la qualità della conoscenza, soprattutto nel campo delle scienze e dell'ingegneria, sono oggi i fattori decisivi della crescita e della competitività del nostro Paese nel mercato globale. Non sono molti i temi politici sui quali l'accordo è così completo e bipartisan. Io concordo, naturalmente, con queste belle affermazioni di principio, ma vorrei capirne di più. In verità rilevo almeno due stridenti contraddizioni.
Una prima palese contraddizione sta fra quanto sopra sostenuto a parole ed i tagli alle risorse investite in scuola, università e ricerca scientifica, nonché il degrado progressivo e forse inarrestabile del sistema dell'educazione e dell'istruzione in Italia. En passant, ricordo che il governo Prodi nella Finanziaria 2007 (da 35 miliardi!) non ha investito un solo centesimo in più nell'università rispetto al precedente governo, anche se va dato atto al ministro Mussi di avere intrapreso una strada virtuosa ma erta, per cominciare a riparare ai danni provocati dal precedente ministro, il cui nome preferisco dimenticare. Speriamo che questo cambi con la prossima finanziaria, e che Montezemolo e Confindustria si mettano d'accordo con sé stessi: meno tasse e più soldi alle imprese o al sistema formazione-ricerca?
Ma se tutti concordiamo a parole sul ruolo decisivo della formazione e della conoscenza, perché i cittadini contribuenti, compresi gli imprenditori, non si preoccupano dei tagli negli investimenti nel sistema dell'istruzione e non pretendono una decisiva inversione di tendenza? Temo che la risposta implichi una serena ma severa autocritica di tanti, anche da parte mia, quale docente universitario: non sarà forse che la scuola e l'università attuali non adempiono al meglio alla loro missione sociale? Se fosse così, si capirebbe perché il contribuente abbia perso fiducia in questo sistema dell'istruzione e valuti uno spreco finanziarlo. Un indizio che supporta questa interpretazione sta nel fatto che, nonostante il calo nelle vocazioni scientifiche (numero di iscrizioni universitarie in discipline scientifiche) e l'elevata mortalità (abbandoni dopo i primi anni di corso), il numero assoluto dei laureati decresce molto meno del numero di iscrizioni o addirittura, per certe discipline, è costante. Secondo me ciò significa che i pochi e brillanti studenti che si laureano sono una sorta di zoccolo duro: sono bravi, fortemente motivati ed appassionati e probabilmente si sarebbero laureati lo stesso, anche senza frequentare le interessanti e brillanti lezioni dei loro docenti. Anzi, magari non andavano fuori corso.
Ancora: Ma a che serve studiare? Oggi per un laureato non è affatto facile trovare un lavoro nel quale possa mettere in pratica ciò che ha imparato. Infatti, specie al sud, non gli resta altro che sperare in un call center. Questa breve analisi implica che il sistema della formazione e della ricerca necessita di riforme profonde.
In realtà la scuola e l'università altro non sono che lo specchio della società con le sue storture. Questo argomento è correlato dalla seconda contraddizione, ben più sottile e perniciosa. Per esempio: ma cosa hanno a che spartire con la società della conoscenza quei programmi tv spazzatura o quei reality show che dominano l'auditel a tutte le ore del giorno. In questi programmi a) sei premiato con tanti soldi se indovini a casaccio una risposta su quattro o scegli il pacco giusto; b) diventi famoso anche se non conosci l'uso dei congiuntivi, ma partecipi ad un talk show solo per litigare (o anche solo far finta di litigare) con gli altri, per urlare parolacce e magari fare anche qualche scoreggio.
Al di là di quello che reclama Montezemolo a parole, oggi questa società neo-liberista, che liberale non è e non intende diventarlo, non ti premia per quello che sei, per quello che conosci, per quello che sai fare. Come può accadere che un parlamentare della Repubblica non sappia cosa sia la Consob o pensare che la Rivoluzione Francese sia avvenuta prima della scoperta dell'America? Come può premiare il merito, la capacità, l'impegno una società così tanto permeata della cultura dell'apparire e dell'avere?
Ma queste contraddizioni forse sono solo apparenti. Io credo che si possa avere - e qualcuno certamente ce l'ha - una visione di società della conoscenza assolutamente retriva e becera, in una parola fascista: chi vuole emergere deve accaparrarsi la risorsa cultura, in modo da primeggiare in un mondo di ignoranti. In questa visione la cultura non deve in alcun modo essere un bene comune, patrimonio di tutti gli uomini, ma solo una merce di valenza strategica come il petrolio o l'acqua. Una merce che il più forte controlla ed elargisce a spizzichi e bocconi solo quando, come e a chi gli conviene. Una merce cara, che può acquistare solo chi se la può permettere. Sempre in questa visione, la scuola e l'università pubbliche non devono compiere la loro missione sociale, ma devono solo limitare un po' l'analfabetismo e, al massimo, mettere gli studenti in grado di comprendere ciò che la TV propina, diventare passivi consumatori del superfluo. Un sistema della formazione inefficiente è quindi funzionale ad un disegno politico neo-conservatore.
Non c'è ulteriore bisogno di commentare la follia di questa visione, ma bisogna allertare tutti che il rischio che si attui questo disegno c'è. Anzi, che forse si sta attuando già, visto il degrado attuale del sistema pubblico e l'esplosione della TV spazzatura. E forse la sinistra deve fare di più per impedire questo disegno, e deve far diventare la conoscenza e la sua diffusione capillare ed omogenea un obbiettivo strategico della sua azione politica. Tutto questo significa che bisogna ribaltare tutto un sistema di valori e ruoli sociali. Nella società della conoscenza un consigliere circoscrizionale non può essere retribuito il doppio di un dottorando di ricerca. Un professore di scuola non può essere retribuito un terzo di uno dei 23 segretari-portaborse del presidente dell'ARS. Ecc., ecc..
Un'ultima annotazione: la cultura deve essere globalizzata. Se l'Italia o l'Europa pensassero di costruire un sistema di (alta) formazione e ricerca scientifica solo per affermare il proprio primato culturale e quindi dominare il mercato della conoscenza in contrapposizione con Cina ed India non sarebbero solo miopi, sarebbero suicidi. La Cina e l'India producono insieme ottocentomila nuovi ingegneri ogni anno, e non basterà dire che i nostri ingegneri sono più bravi. Primo perché non è affatto detto che ciò sia vero. Secondo perché saranno sempre troppo pochi. Terzo perché le tradizioni culturali della Cina e dell'India sono altrettanto antiche e prestigiose quanto le nostre.
In ultimo, ma assolutamente non ultimo, la conoscenza non è e non può essere in alcun modo elitaria. Cioè se scopro o capisco qualcosa di nuovo e la tengo solo per me non ho fatto granché. La conoscenza si alimenta e cresce dal continuo e quotidiano confronto dialettico fra molti, dalla condivisione universale delle idee e delle scoperte, per averne di nuove domani. La conoscenza scaturisce da comportamenti cooperativi e solidali degli uomini, senza distinzione di sesso o preferenze sessuali, di razza, di religione, di età. La limitata diffusione della conoscenza è anzi sorgente di disuguaglianze che limitano la conoscenza stessa e la rallentano nel suo sviluppo; è la prima sorgente di spreco delle risorse umane e ambientali. La conoscenza è, dunque, il principale strumento della democrazia e della sinistra. Un obbiettivo per il quale vale la pena di battersi.