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AprileOnLine: Il re è nudo? Passeggiata in uno dei tanti gironi infernali

Riflessioni. Il 12 giugno si è tenuto a Roma il forum dei Ds su università e ricerca. Pubblichiamo l'intervento di una ricercatrice

14/06/2006
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Aprileonline

Marina Montacutelli*

Tra i vari gironi infernali possibili – quello di qualche presidente simoniaco e superbo, che svende la scienza inseguendo l’azienda; quello di qualche direttore, che dovrebbe camminar sfiancato per il peso di cappe di piombo, come meritano per padre Dante gli ipocriti; quello – subìto - di chi è costretto a conoscer lo pane altrui, magari oltreconfine; quello dell’usanza italica dei cambiacasacca, cioè dei traditori della patria o degli amici (anche se camuffati da astuti Ulisse o da proficui, autoreferenziali girotondi); quello delle Malebolge, dove troviamo i ruffiani, gli ingannatori e i lusinghieri; quello dei predoni di questi anni, che Dante immergerebbe nel sangue bollente – ve ne propongo un altro, di girone. Conficcato giù, nel profondo dell’inferno. E ben radicato, nel tempo e nelle convinzioni.
Con una premessa: se non ora, quando?
Quando, cioè, parlare? Giacché ci troviamo– sui temi dell’università e della ricerca, temo non solo per quelli - in ciò che mi sembra ancora un brodo primordiale, nei programmi e nelle sia pur buone intenzioni: quando, se non ora, che abbiamo finalmente finito di dar conforto alla sparuta pattuglia di deputati e senatori che, anime in pena, si aggiravano in un Parlamento umiliato e offeso? Quando, se non ora, che guardiamo le macerie fumanti del Paese e dei luoghi del sapere e non sappiamo dove cominciare a metter le mani? Quando, se non ora, che il tempo delle promesse è davvero finito, e non lo dice solo Montezemolo? Quando, se non ora, dobbiamo parlare e cominciare a metter ordine e dar corpo, senso, direzione a questo brodo primordiale del programma?
E dobbiamo prender l’astronave, o contemplarle soltanto le stelle che usciamo – certamente – a rivedere? E l’astronave che vogliamo prendere è un’astronave che va a pedali?
Ed è qui, che dobbiamo parlare? Ci ascolterete? A me, in questi giorni, l’hanno chiesto in tantissimi.

Il girone infernale, uno tra i tanti possibili, è quello dei barattieri: sommersi nella pece e uncinati dai diavoli. Oppure quello dei falsari, afflitti da lebbra o scabbia. Molti di noi dovrebbero cominciare a grattarsi furiosamente: eppure la pena più grave, per padre Dante, spetta a chi pecca consapevolmente. Dove e quando ha peccato, chi di noi rilascia il titolo breve o magistrale? Il nostro mestiere è esercitare i cervelli, non allevare asini; pure, sembriamo tanti Lucignoli. Siamo falsari e barattieri, perché facciamo mercato fraudolento di un titolo pubblico, e ancora con valore legale.

Chi ci ha messo, e perché, in questa situazione? Compito della politica è dare il quadro normativo, e le risorse, affinché anche da un cattivo professore possa uscire comunque un discreto studente. Non è questa la situazione delle università italiane, non c’è la “concorrenza sulla qualità” ma, piuttosto, centri luminescenti sotto i riflettori, autonominatisi d’eccellenza o proclamati tali per decreto e spesa pubblica quando le università non hanno neanche la carta e le aule. Abbiamo però l’”accoglienza”, anche se non vendiamo - con tutto il rispetto - prosciutti e ci manca ancora il “customer care”. Abbiamo però la pubblicità allettante (finché non ci acciuffa l’authority per l’ingannevole), per rubarci l’un l’altro gli studenti e rientrar così nelle tabelle ministeriali: eppure, per una buona università, il biglietto da visita dovrebbero essere i suoi laureati.

Gli ultimi anni hanno solo fertilizzato il terreno, producendo una “serialità necessitata” (il tre, e poi il 2) per quella che è stata definita una laurea – obbligatoriamente magistrale, ma di ignoranza - davvero inutile. Necessitata da un paese sfiatato ed economicamente disperato; necessitata da una società che produce attempati adolescenti a casa di mammà, sfiduciati cacciatori di crediti tanto la prospettiva è l’agenzia o il progetto, come si chiama adesso; necessitata da una politica che ha prodotto lemmi da partita doppia, che mercificano un sapere disseccato e svilito, ingravidato di pressappochismo e ignoranza.

Noi, ora nel girone infernale, non avevamo chiesto l’America; ce l’hanno data lo stesso: ma quella delle pianure, non certo Princeton; ce l’hanno poi spacciata per Europa, e non è neanche questo perché nel continente stanno persino riconsiderando i sistemi di alta formazione perché non funzionano e spostano solo più in là – o più nelle casse dei privatissimi master – l’asse della professionalizzazione, se è questo l’unico terreno – insieme a quello delle performances – che si vuol praticare. Questa università è speculare a un Paese in declino e che dichiara la propria bancarotta; produce un Paese tayloristico nella forma e balbuziente nella sostanza. La pagheremo tutti.

E non mi riferisco soltanto, come ci dicono sempre, alla materie umanistiche. E non mi riferisco soltanto, perché i dati non sono il latinorum e sappiamo leggerli e produrli anche noi, a quel che ci dice Alma Laurea, rispettabilissimo e serissimo consorzio – peraltro a pagamento - di 48 università italiane in campione, purtroppo, non statisticamente significativo sulle tante, ormai disseminate in ogni campanile. I dati, per chi vuol cercarli, ci sono: e ci dicono che i laureati non sono aumentati (basterebbe scorporare, e guardare alla data di immatricolazione) e i tassi di abbandono relativi alla totalità della coorte si stimano intorno al 40% (su un piccolo campione di università di media dimensione e in media ponderata) tra il primo e il secondo anno, e intorno al 15% tra il secondo e il terzo anno: è tanto, per chi aveva dato – a noi e alla società - la fiducia di iscriversi all’università.

Aumentano gli iscritti, non certo nelle facoltà tecnico-scientifiche peraltro, e poi se ne vanno. Quelli che restano, continuano stancamente ad accumular crediti e a subire un sapere parcellizzato e screditato, spezzettato e propinato quando e come si può: d’altra parte, perché correre verso il call center? Giacché, con la nuova laurea, non si trova certo più lavoro e questo lo dice pure Alma Laurea che ci conforta anche su un altro dato: i laudatores del nuovo sistema hanno guardato alle “performances” dei primi laureati, per autoconfermarsi e legittimarsi: ma “è evidente che i primissimi laureati post-riforma […] non possono che essere i migliori laureati in assoluto rilevati in termini di performance e, come tali, raggiungere spesso livelli di eccellenza”. A regime, gli studenti hanno capito e le aziende pure: e il lento pede rimonta vittorioso, confortato dall’economia, dalla politica e dalla società.

Noi non abbiamo bisogno di un lifting che certifichi e ratifichi la strategia dell’esclusione. Abbiamo bisogno di un progetto forte e condiviso, perché le riforme senza condivisione hanno il crisma dell’autoritarismo e comunque falliscono. Perché ogni reazione ne produce, quantomeno, una uguale e contraria. Perché anche noi abbiamo una dignità. E perché, dopo l’assolutismo, c’è stata la rivoluzione francese.

L’auspicio sarebbe che si creino gruppi di lavoro permanenti tra noi ed una seria ricognizione statistica del sistema del 3+2 e dei crediti al Ministero: senza dar nulla per scontato, perché – a me – il re sembra nudo e serve solo un bimbo che lo gridi.

Mi chiedo, infine, cos’è questa “governance” di cui si parla tanto: perché occorre cambiare davvero mentalità, se si vuole essere uomini di stato e capaci di “sovranità”, e non solo rappresentanti di fazioni. Anche, se si ha l’intenzione di proporla di tipo “just in time”: ricordandoci che il modello giapponese, sia nel suo comprar brevetti che nella sua fabbrica senza uomini (e forse senza costrutto), è fallito da almeno quindici anni.
Lo so che avere a che fare con noi non è facile: come chi diceva contro Galileo, nella sua versione brechtiana: “il mondo è percorso da un’inquietudine nefanda; e l’inquietudine dei loro cervelli, costoro la trasferiscono alla terra (…) immobile.(…) Loro mettono in dubbio ogni cosa; e possiamo noi fondare la compagine umana sul dubbio, anziché sulla fede?” .
E’ vero, noi dubitiamo.

*ricercatrice


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