Università: il sottosegretario – on. Luciano Modica – rilancia il 3+2 e il sistema dei crediti. Il prof. Paolo Prodi – presidente della Giunta Storica Nazionale - esprime, invece, il più netto dissenso. Che fare?
La situazione - diceva Ennio Flaiano - è disperata, ma non è seria.
Rischia, comunque, di diventare preoccupante.
Marina Montacutelli
Una settimana dopo il giuramento, il sottosegretario all’Università – on. Luciano Modica – ha rilasciato alcune interviste nelle quali, mentre giustamente ribadisce la necessità di rivedere le modalità di attuazione della “riforma Moratti” per la didattica nonché quelle per il reclutamento, il finanziamento degli atenei e sulle cosiddette “classi di laurea”, conferma tuttavia la bontà sostanziale del sistema escogitato dagli allora ministri Luigi Berlinguer e Ortensio Zecchino, ovvero il cosiddetto “3+2” e il correlato sistema dei crediti per conseguire un titolo universitario, con l’obiettivo generale di mettere in “competizione per la qualità” gli atenei, insistendo inoltre sulla necessità (su cui ci sarebbe, per la verità, qualcosa da dire su cosa significhi davvero) della loro piena autonomia. Tutto bene, se non si avesse la sensazione della polvere sotto il tappeto.
In un articolo su “l’Unità”, Paolo Prodi – presidente della Giunta Storica Nazionale – ha evidenziato, infatti, che “con il sistema attuale dei crediti non produciamo né cultura, né preparazione professionale”. Di che si tratta? Che fare? Qui non è solo in discussione l’organizzazione di un ciclo di studi ma di pensare - scusate se è poco - al futuro della società: che non è unicamente (anche) ingenerare una preparazione atta a procacciare un lavoro – preferibilmente stabile – ai giovani, ma pure di dar corpo (finalmente) al semplicemente perfetto dettame costituzionale che recita “la Repubblica promuove lo sviluppo della cultura e la ricerca scientifica e tecnica”. E su questo non dovrebbero esserci proprio incompatibilità di bilancio, qualunque sia il livello del deficit: perché è in gioco il destino di tutto noi.
L’università italiana è, da qualche anno, organizzata appunto con il sistema dei crediti: ossia una specie di tessera che permette di acquisire punti di un sapere fornito ormai in dosi omeopatiche (con la frequenza, il lavoro a casa e qualche libro), fino all’agognato pezzo di carta dopo tre anni (“breve”), ovvero dopo altri due (“specialistica”). Obiettivo della riforma: aumentare il numero dei laureati. Berlinguer e Zecchino vollero riformare e a costo zero: e questo fu, indubitabilmente, un male. Vollero cambiare senza coinvolgere i lavoratori, ovvero – per ripulire un po’ il linguaggio – gli “operatori” e gli “studenti-clienti”. E questo fu malissimo. La parola d’ordine, più o meno sommessa, comunque fu: “fate numero”. Poi, arrivò la signora Letizia Moratti.
Risultato: il cerino acceso in mano resta sempre agli stessi, e con il manico sempre più corto; l’università è diventata un discount delle più svariate, e incredibilmente inverosimili, offerte. E chi paga, con la fiammella del sapere che si affievolisce sempre più, siamo – banalmente - tutti noi: ovvero quello Stato che dovrebbe promuovere lo sviluppo della cultura e della ricerca, nonché l’istruzione non predestinata dal lavoro di papà.
Perché la conclusione di questa bella storia è – in nome di un numero che non riesce proprio a coniugarsi con una qualità, di cui si avrebbe certamente bisogno; per un pezzo di carta così inutilizzabile da produrre un esercito di analfabeti titolati e un’inqualificabile pletora di master privati: e i curricula grondano ormai di onorificenze, ma sembrano a guardar bene la pioggia di Vardiello; per una laurea “espressa” che rimane un accelerato, perché i “fuori corso” non sembrano affatto diminuiti e i laureati nemmeno aumentano; con un’applicazione meccanica di modelli scopiazzati sciattamente, e non sempre adatti alla complessità del sapere; impartendo “corsi” su non si sa bene cosa e affidati a non si sa chi, ma che permettono comunque di aggiungere i bollini della promozione alla tessera; grazie a convenzioni con ogni genere e fattispecie di istituzione sia pubblica che privata, che di bollini ne accordano invece un mazzetto; cercando un presunto riconoscimento delle professionalità, che produce spesso un’ulteriore mercificazione del sapere e delle sue forme e titoli giacché non sono un pacco confezionato o confezionabile né l’uno, né gli altri; constatando un calo vertiginoso delle iscrizioni alle facoltà tecnico-scientifiche, cioè quelle che dovrebbero dare le gambe ad una modernizzazione indispensabile e non più rinviabile; facendo procreare alfine “tesi di laurea” dallo spessore di una sogliola – la distruzione dell’università pubblica.
Enigmatiche, dunque, le dichiarazioni dell’on. Modica: mentre l’università sperimenta e dubita di un modello di insegnamento e della sua organizzazione perché sembra che abbia davvero poco funzionato (quando non ha fatto i danni sotto gli occhi di tutti), e il ministro intende verificarli “sul campo”, appare poco congruente – o utile e foriero di prospettive per il “bene comune sapere”, ma anche per lo sviluppo – che tutto ciò sia liquidato con un troppo generico “il sistema va completamente rivisto” che sottende, tuttavia, il virtuosismo del modello dei crediti e della laurea “breve”. Cerchiamo, allora, di intenderci sul metodo e sugli obiettivi, come pure sullo spazio della politica.
Noi, “operatori del settore”, non siamo come l’angelo di Benjamin, la testa rivolta indietro perché il progresso preannuncia bufera. Non c’è alcuna nostalgia per la vecchia università rigida e talvolta pericolosamente, esclusivamente nozionistica: il sapere è per sua natura critico; il sapere, al di là dei modi per organizzarne la trasmissione, è unico. Ripensare significa, credo, riconsiderare nel presente quelle possibilità che nel passato sono state interrotte e trasformarle – solo ed esclusivamente dopo opportune, consensuali verifiche - in atto politico.
Prima di ribadire presunte “virtualità” metodologiche e organizzative sarà dunque buona cosa, in una situazione appunto disperata, capire ciò che è accaduto e ascoltare chi nelle università lavora o apprende; predisporre, poi, gli strumenti conoscitivi utili per una seria revisione del sistema, ma non dando nulla per scontato; coniugare, infine, tutto ciò non solo con le certe difficoltà del bilancio nazionale ma, anche, con le prospettive di medio e lungo periodo di una società affetta (bisogna ricordarlo?) non solo dal berlusconismo, ma da ciò che questo significa nel profondo: ossia una miscela di populismo, clientelismo, particolarismo, razzismo, antifiscalismo, trasformismo, coniugati con dosi massicce di dannunzianesimo guerrafondaio e di stile e interessi padronali di corto, anzi cortissimo respiro. Il problema del consenso è prioritario per il Governo e per i suoi Ministri; il problema del futuro - ossia di cosa, come, perché si insegna ai giovani - è però molto, molto più importante. Non so quanto giovi organizzare il sapere per approssimazioni successive, quando non si capisce a cosa ci si vuole approssimare salvo il produrre una “quantità” che non è buona nemmeno per le statistiche. Certo è che, se vogliamo lo specchio di un Paese al tramonto, questo è proprio la dequalificante e dequalificata “università dei bollini”.
No, non è l’angelo che guarda indietro di Benjamin. E’ il grido, disperato, di Munch.
Speriamo che ce la caviamo
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