AprileOnLine: A che serve l'università?
Il nodo è se gli atenei potranno svolgere il proprio ruolo di servizio pubblico, riuscendo ad attrarre finanziamenti e a formare laureati competenti. E se tutto questo meccanismo possa funzionare senza triturare psicologicamente e dal punto di vista monetario le giovani intelligenze
Giuliano Garavini, 12 aprile 2007
Il nodo è se gli atenei potranno svolgere il proprio ruolo di servizio pubblico, riuscendo ad attrarre finanziamenti e a formare laureati competenti. E se tutto questo meccanismo possa funzionare senza triturare psicologicamente e dal punto di vista monetario le giovani intelligenze
Le proposte del ministro Mussi riguardo l'università contengono innovazioni per molti aspetti positive, sempre che riescano a tradursi in legislazione nell'immediato futuro. E' lodevole l'intenzione di ridisegnare i finanziamenti agli atenei non più in base al numero degli iscritti o di laureati, ma con criteri più adeguati come la qualità dell'insegnamento e i risultati nella ricerca. Ugualmente interessante il progetto di abolire esami scritti e orali per l'assunzione di ricercatori, per sostituire al sistema degli "esami farsa" la valutazione di titoli e lettere di presentazione da parte di docenti, sia italiani che stranieri, con l'intento di stabilire una lista nazionale dei candidati alla ricerca.
A dire il vero, sulle nuove modalità dei concorsi per i ricercatori qualche dubbio potrebbe affiorare. Una volta giudicato idoneo, il candidato dovrebbe essere soggetto alla "chiamata" da parte della singola università. In questo modo l'università si assumerebbe apertamente l'onere di aver scelto un candidato poco qualificato. Ma non è detto che nel sistema italiano, in cui il titolo di studio ha valore legale e quindi la laurea dell'università x vale come quella dell'università y, questa responsabilità scuota le coscienze del mondo accademico. Altro problema riguarda le commissioni internazionali di valutazione dei candidati. La proposta mira a sprovincializzare la ricerca italiana ma, visto che spesso gli aspiranti ricercatori italiani se scrivono in una lingua straniera lo fanno in inglese, e visto che la gran parte dei docenti europei e di altre parti del mondo non conosce direttamente l'italiano, vi è il rischio che la ricerca italiana, nell'ansia di sprovincializzarsi, divenga una provincia del mondo anglosassone.
C'è poi un discorso più generale che riguarda l'università, e che forse nemmeno il ministro Mussi ha ancora avuto il coraggio di affrontare. Bisogna tornare a chiedersi: a che serve l'università come servizio pubblico?
L'università italiana è mutata profondamente a partire dagli anni Settanta fino ad assumere i contorni, nel migliore dei casi di uno strumento per selezionare forza lavoro delle aziende e, nel peggiore dei casi, di un mezzo per arricchire alcuni dei più scaltri nel gestire dinamiche e falle dell'organizzazione burocratica universitaria, nonché per procrastinare di qualche anno la disoccupazione giovanile. Come spiegare altrimenti: la proliferazione delle sedi universitarie e dei corsi di laurea; la creazione di Master che per la stragrande maggioranza non aggiungono al sapere ma sottraggono soldi e tempo; i crediti per gli esami dati per il cucito e per il taglio, come pure per la semplice partecipazione a convegni; gli stage obbligatori e non pagati presso aziende. Che c'entra tutto questo con l'università come servizio pubblico?
In un libro che è diventato un classico in materia di educazione, tradotto con il titolo "Scuola e società", il filosofo americano John Dewey ci ricordava che la scuola primaria e dell'obbligo dovrebbe imporre una disciplina del comportamento e del ragionamento, insegnare le basi della vita civile e dell'acculturazione e, non ultimo, servire a far socializzare i giovani cittadini. Ma l'insegnamento secondario e universitario dovrebbe, oltre che preparare degnamente allo svolgimento di determinate professioni, essere lo strumento per entrare nei nodi fondamentali di una determinata materia, insegnare il dubbio, stimolare alla ricerca.
La società sta mutando rispetto all'epoca del 1968 e con essa deve mutare anche l'università senza perdere di vista il suo obiettivo di fondo. Si dovrebbe introdurre, ad esempio, un più ampio utilizzo delle lingue straniere, degli strumenti informatici, del contatto con la pratica sia della scrittura che nel luogo di lavoro. Andrebbero forse esposte alcune delle contraddizioni presenti nello slogan "università gratuita e di massa". Infatti, nelle attuali condizioni del bilancio pubblico, e nella scarsezza di investimenti in uomini e mezzi, se vogliamo mantenere l'università gratuita e di alto livello dobbiamo allo stesso tempo porre selezioni più rigide perché gli studenti costano, e dobbiamo forse avere il coraggio di chiudere alcune delle sedi universitarie che non siamo in grado di sostentare. D'altra parte, le famiglie di oggi sono relativamente più povere di quelle degli anni Settanta e mandare un figlio a studiare in una grande città sta divenendo un impegno sempre più gravoso; è quindi necessario un sistema di borse di studio più serio ed efficace che in passato.
Il mondo del lavoro è mutato radicalmente e l'idea che l'università possa essere la sede per la preparazione ad ogni tipo di professione della società dei servizi con specifici percorsi di studio, dall'infermiere al pubblicitario, non può che portare alla disarticolazione dell'università. L'università non può essere un servizio pubblico di formazione professionale e il suo impegno in questo campo va più chiaramente delimitato che in passato. Se è vero che nella società moderna lo stesso individuo può aver bisogno di passare attraverso più momenti di formazione e di cambiamento di lavoro, l'università non può essere la protagonista di questa "formazione nell'arco della vita" ma solo un piccolo tassello di un processo che va affidato alle aziende, agli enti locali, come anche ai finanziamenti di specifici enti nazionali ed europei. Il rischio della confusione fra università e formazione professionale, è quello della creazione di università di serie A, che fanno ricerca, e di serie B che fanno formazione, il che minerebbe a fondo l'idea dell'università come servizio pubblico di pari qualità su tutto il territorio nazionale.
Per tornare con i piedi per terra: tutto questo discorso sulla qualità dell'istruzione universitaria non ha senso se per metterlo in pratica si sta precarizzando tutto il sistema dell'insegnamento. I numeri del Miur parlano chiaro e ci dicono che nel 2006 a fronte di 60 mila docenti di ruolo fra ricercatori e professori, gli assegnisti e docenti a contratto sono 56 mila. In alcune piccole università, come quella di Ferrara, i docenti a contratto sono assai più di quelli stabili. Ugualmente, in alcune facoltà de "La Sapienza", come Sociologia o Architettura, i docenti a contratto superano il totale di quelli di ruolo. L'unica ragione per questa moltiplicazione sfrenata dell'insegnamento a contratto è quella del contenimento delle spese. Infatti, a fronte dello stesso lavoro (insegnamento frontale, ricevimenti, assegnazione di tesi), i docenti a contratto prendono fra i 1000 e i 1500 euro ad insegnamento, una frazione risibile dello stipendio dei docenti di ruolo che pure è basso. La "riforma" dell'università non può essere attuata assumendo una miriade di precari (che spesso non hanno altro lavoro) con i danni immensi che questo provoca alla qualità stessa dell'insegnamento universitario. Assumere 4ooo ricercatori in un anno non ha senso senza aumentare stipendi, tutele, motivazioni, selettività, degli altri 40 mila docenti a contratto, concetto che andrebbe ribadito con più forza che in passato dai sindacati.
In conclusione: il ministro Mussi ama giustamente ricordare che mentre le spese della sola Harvard raggiungono i 20 miliardi di dollari, quelle dell'intero sistema universitario italiano si fermano a 13 miliardi. Dunque: l'università italiana difficilmente potrà far parte dell'eccellenza mondiale nell'ambito della ricerca. Il problema è però se le università italiane, pur non essendo l'eccellenza mondiale, potranno svolgere adeguatamente il proprio ruolo di servizio pubblico, se così facendo riescono ad attrarre finanziamenti privati, se i laureati saranno veramente competenti e brillanti al punto di ricevere offerte di lavoro, e se tutto questo meccanismo possa funzionare senza triturare psicologicamente e dal punto di vista monetario le giovani intelligenze che partecipano del funzionamento dell'università italiana.