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Altro che licei brevi, serve una Costituente (dal basso) per la scuola pubblica

L'articolo di Francesco Sinopoli, Segretario generale della FLC CGIL, pubblicato sull’Huffington post.

23/08/2017
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L'Huffington Post

Il decreto del Miur che avvia la sperimentazione per verificare gli effetti della riduzione di un anno della durata della scuola secondaria superiore ha prodotto un generale coro di critiche. Dal punto di vista di chi scrive l'impressione è che nulla sia cambiato dall'era Gelmini, quando la riforma degli ordinamenti fu incardinata in un decreto legge di razionalizzazione della spesa pubblica: il taglio di un anno impoverisce drasticamente la qualità dell'offerta formativa del sistema scolastico pubblico, danneggia le fasce più deboli della popolazione scolastica e causa una perdita di organici, di fatto configurandosi come mera operazione di cassa.

Ma soprattutto, si può realizzare un intervento di riforma dei cicli scolastici riducendo la durata delle scuole secondarie superiori, senza ragionare dell'intero sistema? Perché questo è il vero cuore del problema. Se ne discute da decenni, senza tuttavia venirne a capo, come ricordava al Quotidiano Nazionale il pedagogista Giuseppe Bertagna in un'intervista pubblicata lo scorso primo agosto. Il professor Bertagna "provoca" una discussione più generale sulla riforma del sistema o di un cambio del paradigma, che intendiamo qui ed ora raccogliere, anche come sfida.

Intanto, smitizziamo l'idea che ovunque in Europa si esca un anno prima dalle scuole per soddisfare le necessità di chissà quale mercato del lavoro, che non attenderebbe altro. In sintesi, il termine della secondaria superiore è a18 anni in: Belgio, Irlanda, Spagna, Francia, Ungheria, Portogallo, Malta, Regno Unito; 19 anni in Bulgaria, Danimarca, Estonia, Italia, Lettonia, Lituania, Slovenia, Slovacchia, Finlandia e Svezia; 18 o 19 anni a seconda degli indirizzi in Germania, Austria, Cipro, Olanda, Polonia.

Nella quasi totalità dei casi la secondaria superiore ha inizio a 15 o 16 anni (in Italia a 14 anni). Conseguentemente alle stesse età termina la secondaria inferiore. Ogni sistema ha una sua origine storico-politica, geografica e demografica, e si è nutrito nel corso dei decenni di successive modificazioni e riforme. Nessun sistema è perfetto, e ogni sistema è adattabile ai tempi storici, alle generazioni, e ai mutamenti dei profili cognitivi, delle capacità perfino antropologiche dell'apprendimento, delle fasi dell'insegnamento.

Occorre perciò, a proposito dell'Italia, porsi l'interrogativo giusto: quale scuola vogliamo costruire, mutando sistema e paradigma, per le generazioni del XXI secolo, basandola su quali fondamenti e presupposti teorico-pedagogici? Determinando quale senso attribuirle? La risposta all'interrogativo porta a dare soluzione non solo al numero di anni complessivi per i cicli scolastici ma soprattutto a ricostruire quel filo sociale, decisivo, che lega un'intera comunità nazionale al suo sistema scolastico.

L'Osce, per esempio, analizzando le diverse esperienze delle scuole materne e primarie suggerisce di stabilire un criterio di valutazione delle diverse transizioni, non solo formative, ma anche esistenziali alle quali i bambini e le bambine sono sottoposti. La pedagogia moderna ci dice che definire la transizione significa anche operare per una maggiore uguaglianza (e l'uguaglianza riporta nell'alveo della Costituzione ogni riforma del sistema scolastico).

La transizione è importante per tutti i bambini, ma ancora di più per i bambini che presentano svantaggi, mentali, fisici o economici di partenza, proprio perché sono i più a rischio una volta entrati nella scuola elementare. Se ciò è vero, ed è dimostrato dalle buone pratiche nei paesi dove la transizione viene problematizzata, e risolta a favore dello sviluppo cognitivo dei bambini e della loro socializzazione primaria, ciò significa operare a livello sistemico, e dunque attraverso decisioni politiche, per rendere coerenti le famiglie e le comunità di appartenenza con la comunità scolastica, e questi con i servizi pubblici. Molte ricerche dimostrano che se si favorisce questa sistemica coerenza, ne traggono beneficio soprattutto i bambini svantaggiati.

In Italia le transizioni più problematiche sono nel passaggio fra la scuola primaria e la scuola secondaria di I grado e tra quest'ultima e la secondaria di II grado. Nel primo caso è evidente come la generalizzazione degli istituti comprensivi si è risolta fondamentalmente in un'operazione di risparmio con la formazione di megaistituzioni scolastiche da mille e più alunni, mentre sullo sfondo sono rimaste le problematiche connesse alla transizione nell'approccio didattico educativo tra i due segmenti.

In sostanza, vanno problematizzati il passaggio critico in cui la scuola dell'apprendimento diventa scuola delle discipline insieme alla complessità nell'affrontare le caratteristiche della pre-adolescenza nella società contemporanea. Nel secondo caso continuiamo a registrare soprattutto nel primo anno della secondaria di II grado un livello di dispersione scolastica (intesa come abbandoni, bocciature e ripetenze) inaccettabile.

Il costo sociale (ma anche economico) di questa situazione è una delle ferite aperte del nostro paese. In una riflessione sui cicli questo è il primo problema che andrebbe affrontato. Dov'è che la scuola inizia a fare fatica nell'assolvere alla sua funzione costituzionale? Dove intervenire affinché nessuno resti indietro? La risposta a questi interrogativi potrebbe essere una buona base di partenza per affrontare la questione dei cicli in modo non estemporaneo o peggio motivato da mere esigenze di cassa, e facendoci guidare dal contesto sistemico dei percorsi di apprendimento e delle transizioni, dalla centralità dei bambini e dei ragazzi, dall'evoluzione dei paradigmi pedagogici e dall'introduzione nei loro mondi della vita di quella tecnologia che senza saperi critici può diventare pericolosamente dominante e indurre a forme anche violente di nichilismo e autoannientamento.

Nel salto, come in tutti i salti, sono i più deboli, quelli che non hanno alle spalle una famiglia in grado di integrare i saperi che la scuola presenta divisi, a soffrirne. È in quel passaggio che le disuguaglianze pesano e si amplificano confermando nel 2017 le preoccupazioni e le perplessità che don Milani aveva già espresso, con i suoi studenti, nella Lettera a una professoressa.

Oggi dobbiamo tornare a porci una domanda di fondo, la stessa che si poneva ormai cinquanta anni fa la pedagogia democratica. Ossia se sia proprio vero che i figli della povera gente siano più stolti di quelli dei signori, come i risultati scolastici facevano pensare. Perché oggi come ieri se il sapere è solo quello dei libri, "chi ha tanti libri a casa sarà sempre più avanti di chi i libri non li ha mai visti". Anche oggi chi ha tanti libri in casa potrà sempre scegliere la scuola migliore sulla base delle informazioni che riceve dalla "rendicontazione" dei risultati dei test e delle diverse forme di valutazione nella loro deriva sempre più ideologica come ho scritto in un post precedente.

Il punto non è quello di consentire una scelta informata delle scuole in un sistema di quasi mercato ma come si fa ripartire anche nel nostro paese quella mobilità sociale che da tempo è in crisi, e come si costruiscono le condizioni per far sì che la scuola sia uno strumento di contenimento delle disuguaglianze e non un moltiplicatore.

La scuola della legge 107, voluta da Renzi e dalla ministra Giannini, e confermata dalla Fedeli, non è buona affatto. Per trovarne una conferma, basta tornare alle parole della ministra Fedeli in una lunga intervista al Sole24ore. L'ideologia "della formazione del capitale umano" di cui parla la ministra, non solo non mette al centro gli apprendimenti, ma piega la scuola all'interesse di brevissimo periodo del sistema produttivo italiano con tutti i suoi attuali limiti: specializzazione produttiva su beni a basso valore aggiunto e ricerca costante di realizzare il profitto giocando su costo del lavoro e orari.

Di questa deriva è figlia anche l'alternanza scuola-lavoro nelle modalità con cui in troppi casi è stata concepita e attuata. Si sta costruendo un alibi affinché le aziende continuino a disinvestire in formazione, assecondando l'idea folle che la scuola possa assolvere ad un compito che spetta alle imprese.

Ecco perché occorre ripartire dal riconoscimento di tutti gli errori della legge 107, resi ancora più devastanti dai decreti delegati che l'accompagnano. Ma abrogarla non basta; la scuola gentiliana che tutte le pseudoriforme degli ultimi anni hanno lasciato nei fatti immutata, non ci piaceva e continua a non piacerci oggi.

Ha ragione Jacopo Rosatelli quando scrive sul Manifesto che un nuovo modo di insegnare non solo è possibile ma è anche praticato con successo in molte scuole. Il tema dei saperi contrapposto alle competenze non è la chiave per la scuola di domani. La capacità di trasmettere strumenti per leggere la realtà e l'educazione a competenze trasversali non subalterne alle richieste di un mercato del lavoro povero da ogni punto di vista, sono obiettivi importanti dell'insegnamento.

Dice bene Rosatelli: "Studiare Manzoni deve servire anche a capire un articolo di un quotidiano o di un contratto di lavoro, a riconoscere le fake news razziste diffuse in rete o quando un post su facebook trascende in cyberbullismo, altrimenti è mera trasmissione della cultura borghese".

Vi possiamo anche aggiungere la possibilità di dotare le giovani generazioni dei mezzi conoscitivi critici necessari per costruire il senso di una cittadinanza aperta, accogliente, antifascista, democratica, che sa discernere, riconoscere e respingere ogni forma di discorso autoritario, nello spirito della Costituzione repubblicana.

Così come sono sotto i nostri occhi gli obiettivi mancati dell'autonomia scolastica, dalla quale bisognerebbe ripartire, nella sua accezione più elevata di autogoverno partecipato della scuola come comunità educante. Per non parlare delle condizioni disastrose di tutte le infrastrutture di base che dovrebbero consentire alla scuola di funzionare, sia quelle materiali che quelle immateriali come dimostra ciò che è accaduto con le graduatorie di istituto.

La verità è che i cambiamenti della scuola andrebbero approvati con maggioranze costituzionali, in grado di garantirne la continuità nel tempo. Cambiamenti che vanno attentamente valutati e monitorati. Dopo le presunte riforme degli ultimi anni, un intervento riformatore avrebbe bisogno di una vera e propria Costituente della scuola, fra le forze politiche e quelle sociali, i rappresentanti degli studenti e delle famiglie, il governo centrale e il sistema delle autonomie locali, per delineare un progetto condiviso.

Per questo bisognerà promuoverne una dal basso, mettendo a disposizione tutte le nostre energie a servizio di una grande mobilitazione del mondo della scuola nella quale un ruolo chiave dovrà avere il rinnovo del contratto collettivo nazionale di lavoro, perché la riconquista di diritti, salario e dignità si deve necessariamente coniugare ad una idea di scuola radicata nella Costituzione, capace di guardare al presente e al futuro.


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