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Alle elementari a cinqu anni, ecco la riforma

Giorgio Israel

22/05/2014
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Il Messaggero

Giorgio Israel
La dichiarazione del ministro Giannini della possibilità di anticipare l’ingresso dei bambini alle scuole primarie a 5 anni, deve aprire una riflessione.
Difatti, come lo stesso ministro ha osservato, quest’idea è connessa all’ipotesi di abbreviare la durata del liceo a quattro anni; perché – ha aggiunto – se l’obbiettivo è di far uscire i ragazzi dalla scuola a 18 anni, allora è meglio puntare su questa soluzione, piuttosto che gettarsi a capofitto sul liceo quadriennale che dovrebbe essere pensato nella cornice di una riforma complessiva dei cicli.
C’è molto buon senso in questo approccio e proviamo a dire per quali ragioni, almeno secondo il nostro punto di vista. Siamo realisti: è evidente che siamo di fronte a una pressione fortissima volta ad accorciare il percorso scolastico di un anno. Rivestire questa pressione di motivazioni didattiche, pedagogiche o culturali è una colossale ipocrisia: è chiaro che le motivazioni sono di risparmio e di tagli, ed è altrettanto chiaro che la pressione è tale che al ministro, qualsiasi cosa ne pensi, risulta difficile resistere. Noi siamo convinti che sarebbe meglio resistere alla spinta, ma ove essa divenisse incontenibile l’unico atteggiamento saggio è di evitare scelte o “soluzioni” che scassino definitivamente quel poco di buono che resta della nostra scuola. 
Iniziamo con l’accantonare la tentazione perversa di mettere in campo una riforma complessiva dei cicli. Dopo anni di sperimentazioni e riforme parziali che hanno fatto della scuola un colabrodo, è bene non farsi prendere da questa tentazione: non esistono le condizioni culturali, politiche, istituzionali (anche in presenza di un ministero inguaribilmente dirigista) per costruire in tempi ragionevoli una soluzione che metta d’accordo le innumerevoli teorie pedagogico-didattiche che si affollano attorno al capezzale del malato. Ricomincerebbe la diatriba sulla saldatura tra l’ultimo anno delle primarie e il primo delle medie, o tra l’ultimo delle medie e il primo dei licei. Non meno devastante – per usare un termine moderato – sarebbe l’idea del liceo quadriennale che porterebbe a distruggere i licei classici e scientifici, rendendo una burletta l’insegnamento della storia, della filosofia e della matematica, per non dire altro: la vicenda della “geostoria” indica con quale spregiudicatezza si può essere capaci di inventare materie-centauro. Allora, se proprio si deve fare qualcosa, meglio agire sul ciclo comprendente i tre anni della scuola dell’infanzia e i cinque della scuola primaria, riducendo a due i primi tre e inserendo i bambini nella scuola primaria a cinque anni. Va osservato, al riguardo, che la scuola dell’infanzia è il settore più in affanno e insufficiente a coprire la domanda, per cui la sua riduzione a due anni permetterebbe un impiego più razionale di insegnanti e aule presentando un’offerta di gran lunga migliore senza tagli. Inoltre, una maggiore interconnessione tra i due percorsi scolastici va nel senso della riforma basata sul progetto formulato anni fa da una commissione ministeriale presieduta da chi scrive, che ha unificato in un’unica laurea quinquennale la formazione degli insegnanti della scuola dell’infanzia e della scuola primaria, restituendo dignità ai primi e creando le condizioni per un’osmosi tra due percorsi che sono strettamente correlati. Possiamo ora constatare che si trattò di una scelta preveggente che, non a caso, è l’unica parte di quella riforma che ha retto e funziona, a fronte dello sfacelo cui è stato ridotto il progetto dei TFA (Tirocini Formativi Attivi). Essa può essere la base per una soluzione agevole nel senso prospettato dal ministro.
V’è però un punto importante su cui occorre essere estremamente chiari. I bambini di cinque anni sono maturi per entrare nelle scuole primarie. Parecchi anni fa, vecchie teorie pedagogiche diffusero la tesi che un bambino, prima dell’età di sette/otto anni, non è capace di ragionamenti logici e non è capace di assimilare concetti matematici. Si tratta di tesi ampiamente confutate, screditate e dannose, che hanno legittimato una didattica rinunciataria e mediocre, una “didattica della paura” che ha avuto punte estreme nella tesi secondo cui in prima elementare non si debbono insegnare i numeri oltre al 20. Malauguratamente questi tesi vengono ancora sostenute da chi fa orecchie da mercante alle confutazioni che ne sono state fatte. Purtroppo, esse hanno influenzato sia la prassi di molti maestri, sia molti aspetti delle mediocri Indicazioni nazionali per le primarie varate un paio di anni fa. Se l’anticipazione dell’ingresso dei bambini alle primarie a cinque anni dovesse costituire un pretesto per abbassare ancora il livello e per trasformare l’intero ciclo primario in un gigantesco asilo, in un percorso di giochi, per giunta afflitto dalla tendenza a trasformare ogni minima difficoltà didattica in un “disturbo di apprendimento”, allora sarebbe meglio non farne nulla. Ogni intervento sulla struttura scolastica deve mirare ad elevare la qualità degli apprendimenti, e non a degradarli ulteriormente. Questo rischio è particolarmente presente nella scuola primaria che è il segmento scolastico più colpito negativamente dalle avventate sperimentazioni di cui si diceva prima, anche se già sentiamo gli alti lai di chi nega questo stato di cose avendo collaborato a crearlo.


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