Al Politecnico di Milano dal 2014 si parlerà solo inglese. De Mauro: non abbandonare l'italiano
È il suggello a un percorso tracciato da tempo. Dall'anno accademico 2014-2015 l'intera offerta formativa magistrale (bienni specialistici e dottorati) del Politecnico di Milano sarà data in lingua inglese
Dario Aquaro
È il suggello a un percorso tracciato da tempo. Dall'anno accademico 2014-2015 l'intera offerta formativa magistrale (bienni specialistici e dottorati) del Politecnico di Milano sarà data in lingua inglese: dopo la laurea triennale, fine dell'imbarazzo della scelta (vota il sondaggio). Anche gli ultimi corsi tenuti ancora in italiano (nelle magistrali, circa i due terzi) saranno immolati sull'altare dell'internazionalizzazione, la stessa che ha permesso all'ateneo milanese di vedere gli studenti stranieri sul totale degli iscritti passare dall'1,9% nel 2004 al 17,8% nel 2011.
In preparazione al passaggio definitivo, a Milano si investiranno 3,2 milioni di euro per attrarre docenti dall'estero (15 professori, 35 post doc, 120 visiting professor). Gli studenti italiani «avranno, oltre alle competenze più scientifiche, anche un'apertura culturale internazionale. Perché un ragazzo che si affaccia al mondo del lavoro deve abituarsi a lavorare in contesti internazionali», ha spiegato il rettore Giovanni Azzone. E poi, in questo modo, si attraggono «studenti stranieri, un valore aggiunto per il nostro paese. L'Italia ha una forte attrattiva culturale, ma anche una barriera, la conoscenza limitata della lingua: insegnando in inglese attraiamo tutte quelle persone interessate alla cultura italiana». Insomma, dice Azzone, «è indispensabile innovare insieme alle imprese e per farlo è necessario attrarre e trattenere capitale umano di qualità».
Tutti gli insegnamenti in inglese? «Può essere una strada ragionevole per un'università privata, ma non per quella pubblica. Altra cosa invece se viene impartito in inglese l'insegnamento di determinate materie e solo in alcuni corsi» è l'obiezione del linguista Tullio De Mauro. Dalla Luiss alla Bocconi (che nel 2011 ha introdotto la prima laurea in International economics and management), le università private italiane hanno diversi corsi di laurea triennale e magistrale, oltre che master, dove l'inglese è lingua esclusiva di insegnamento.
Ma proprio nelle facoltà economiche e scientifiche, il percorso di internazionalizzazione è tracciato da tempo anche nelle università pubbliche, e non certo solo al Politecnico milanese. Quello di Torino negli ultimi sei anni ha chiuso corsi in italiano per riaprirli in inglese, e tolto tasse a chi li frequenta. A Roma in inglese ci sono corsi di Medicina e Farmacia, oltre che di Ingegneria e ed Economia, come anche a Pavia. E a Bologna: dove in lingua si contano pure lauree magistrali in Agraria, Scienze e Tecnologia, Scienze Politiche. L'elenco è vario, e distribuito lungo lo stivale.
Il Centro Studi della Crui (Conferenza dei rettori delle università italiane) sta preparando una nuova indagine sui corsi tenuti interamente in lingua inglese (lauree di primo e secondo ciclo, dottorati, master, winter/summer school). L'ultima risale al 2007, ma – ammettono gli interessati – citarle sarebbe fuorviante, perché il fenomeno degli insegnamenti in lingua è realmente esploso. E riamane ancora tanta strada da percorrere. Nelle università dei paesi industrializzati la media degli studenti stranieri è del 10%, nel Regno Unito del 20%: in Italia si abbassa al 3,6 per cento.
«L'italiano i ragazzi devono impararlo al liceo – commenta Azzone - pensare di farlo all'università è tardi. Non si può chiedere alle università di insegnare una professione e, nel frattempo, fornire anche competenze di questo genere. Se dovessero fare anche il liceo farebbero male entrambe le cose». Ma i ragazzi italiani, come ha sottolineato una recente indagine condotta dall'istituto Makno, mostrano ancora una bassa propensione al multiculturalismo. "Costringerli" ad affrontare alcuni corsi (solo alcuni, of course) in inglese servirebbe da stimolo ulteriore. E magari – apprendere veramente bene la lingua – sarebbe utile a distinguerla meglio da quella di Dante, e non percepire gli anglismi tecnici come status symbol: l'inglesorum come nuovo latinorum.