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Abolire le tasse universitarie si può? Ecco cosa dicono i numeri e i confronti internazionali

doveroso aprire un dibattito sul diritto allo studio e che non lo si possa fare senza prendere atto dei numeri e dei confronti internazionali.

09/01/2018
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ROARS

«Aboliamo le tasse universitarie»: questa proposta di Liberi e Uguali, twittata da Pietro Grasso ha innescato una vivace discussione. Costa davvero 1,6 miliardi? E, soprattutto, ha senso oppure è un provvedimento velleitario di cui non abbiamo bisogno e, magari, persino dannoso? Lo scopo di questo post è quello di mettere a disposizione dei nostri lettori un po’ di dati e di comparazioni internazionali in modo da poter affrontare la discussione con un minimo di cognizione di causa. Prenderemo le mosse dal “Gioco dei quattro cantoni” che ci aiuterà a capire in che misura l’Italia può dirsi “un paese per studenti”. Poi ci faremo altre domande. L’università italiana è davvero “quasi gratuita”, come ha detto anche Vincenzo Visco, compagno di partito di Grasso? In quantie e quali nazioni europee le tasse universitarie non si pagano? E, insieme a Francesco Giavazzi, ci domanderemo: «Siamo sicuri che questo paese abbia bisogno di più laureati?». Sarà l’OCSE che ci aiuterà a rispondere, mentre Alma Laurea ci dirà se è proprio vero che «Meno studi più trovi lavoro».

1. Il gioco dei quattro cantoni

Il nostro punto di partenza sarà quello che chiameremo il “gioco dei quattro cantoni”. Il nome ci è venuto in mente, esaminando il seguente grafico cartesiano.

Il grafico, che abbiamo preso dal rapporto Eurydice, 2017 (National Student Fee and Support Systems in European Higher Education), ha una sua lunga storia: per anni è stato usato nel Rapporto OCSE Education at a Glance per mettere a confronto le misure di sostegno al diritto allo studio. Da un paio di anni, è scomparso dal rapporto OCSE, ma ha fatto la sua ricomparsa nel già citato Rapporto Eurydice della Commissione Europea. Con la significativa aggiunta di una suddivisione in quattro cantoni, etichettati con le lettere A, B, C, D:

  • A: in questa regione del grafico si trovano le nazioni in cui la maggioranza degli studenti è esentata dalle tasse universitarie e più della metà beneficia di “grants” (borse di studio);
  • B: maggioranza esentata dalle tasse ma solo una minoranza beneficia di grants;
  • C: minoranza esentata dalle tasse e solo una minoranza beneficia di grants;
  • D: minoranza esentata dalle tasse, ma la magggioranza beneficia di grants.

Come osservato nel rapporto, questa divisione in quattro cantoni ha delle ovvie limitazioni. Non tiene conto dell’accesso a prestiti agli studenti (particolarmente rilevanti in Inghilterra) e non tiene conto dell’ammontare delle tasse e dei grant. Ciò nonostante, il grafico è ritenuto abbastanza significativo da poter essere usato per identificare quattro diverse politiche universitarie, che corrispondono appunto ai nostri quattro cantoni.

Cosa si può dire del Cantone A?

In countries following this policy approach, the public budget covers the student higher education fees. […] This approach indicates significant investment from the public budget in supporting student participation in higher education and provides students with a high level of economic independence. Denmark, Malta, Sweden, Finland and the United Kingdom (Scotland) take this approach.

Più o meno scherzosamente, potremmo dire che questo cantone è il Paradiso degli studenti universitari.

Ma l’Italia dove si trova? Beh, si trova nella regione opposta, il Cantone C.

In the French Community of Belgium, France, Spain, Ireland and Italy, some financially disadvantaged students are exempted from paying fees, and are also eligible for need-based grants. […] In most countries in this group, less than a third of students obtain need-based grants. The low availability of grants tends to make students dependent on family financial support or work. It may also make access to higher education difficult, particularly for disadvantaged students. The United Kingdom (England) used to combine grants and loans. However, since 2016/17, student support has switched exclusively to loans.

Abbiamo qualche buona ragione per dire che il Cantone C è l’Inferno degli studenti universitari. Un contesto che tende a rendere problematico l’accesso all’istruzione universitaria, soprattutto per chi proviene da famiglie svantaggiate. E noi ci siamo dentro, anche se i recenti provvedimenti sulla no-tax area e qualche maggiore fondo destinato alle borse di studio dovrebbero aiutarci ad allontanarci un po’ dall’angolo maledetto.

In conclusione, il gioco dei quattro cantoni ci aiuta a comprendere che il detto “non è un paese per studenti universitari” si addice a diverse nazioni, tra cui anche l’Italia.

2. «La nostra università è gratuita». Davvero?

Sappiamo già che non tutti saranno d’accordo con la conclusione che abbiamo tratto dal gioco dei quattro cantoni. Infatti, non abbiamo preso in considerazione un dettaglio per niente irrilevante, ovvero l’ammontare delle tasse universitarie. Molti italiani, tra cui i lettori del Corriere della Sera, hanno sempre sentito dire che la nostra è un’università “quasi gratuita” (Francesco Giavazzi,  24.10.2010) o, anzi, che “è gratuita” (Roger Abravanel, Corriere della Sera, 5.5.2015). L’università gratuita appartiene alla categoria delle fake news belle e buone (basta leggere le cifre sui MAV). Rimane però il dubbio che da noi si paghi poco, a confronto con gli altri paesi europei.

Vediamo cosa dice il rapporto Eurydice riguardo all’ammontare “tipico” (most common) delle tasse pagate nelle diverse nazioni.

Solo in Inghilterra e Galles si paga più di 5.000 € all’anno. Tra 3.000 e 5.000 €, troviamo l’Irlanda del Nord. L’Italia è nel gruppo che fa pagare tasse nell’intervallo 1.000-3.000 €. Nella maggior parte delle nazioni europee le tasse tipiche sono inferiori a 1.000 € e in molti casi, persino gratuite (Cipro, Grecia, Germania, Danimarca, Scozia, Svezia, Norvegia, Finlandia).

Facciamo un’ulteriore verifica, consultando il Rapporto OCSE Education at a Glance 2017.

Se ci concentriamo sulle istituzioni pubbliche (losanghe azzurre), vediamo che sono ben poche le nazioni europee che fanno pagare (in media) tasse universitarie maggiori di quelle italiane (per semplicità trascuriamo la Lettonia, per le cui istituzioni pubbliche la Tabella B5.1 non fornisce la media ma un intervallo 1.010-4.344 USD a parità di potere di acquisto). Il discorso cambierebbe se ci paragoniamo a nazioni extrauropee in cui è vigore il sistema dei prestiti agli studenti, come negli Stati Uniti.

Ma, se ci limitiamo all’Europa, per pagare più tasse che in Italia bisogna trovarsi in una di queste nazioni

  • Regno Unito (Scozia esclusa)
  • Paesi Bassi
  • Spagna

Nelle altre nazioni europee, si paga meno che da noi. A fronte di questi numeri, anche l’università “quasi gratuita” rientra nel novero delle fake news.

3. «Siamo sicuri che questo paese abbia bisogno di più laureati?»

A porsi la fatidica domanda era Francesco Giavazzi nel 2012. Prima di rispondere, cerchiamo di capire quanti sono i laureati.

Dalla tabella e dal grafico si vede che l’Italia è penultima. Nel 2015 eravamo diventati ultimi dopo il sorpasso operato ai nostri danni da Cile e Turchia. Poi, è entrato il Messico e siamo “risaliti” al secondo posto … dal fondo.

3. Non abbiamo bisogno di più studenti, ma di più laureati …

Ok, siamo penultimi nell’OCSE come percentuale di laureati. Però, non è detto che sia un bene incoraggiare più giovani a iscriversi all’università. È noto che la nostra università è un colabrodo che perde un sacco di studenti a causa degli abbandoni. Non vogliamo farci raggiungere e superare anche dal Messico nella classifica della percentuale di laureati? Anche parità di iscritti, non è che ci basta ridurre gli abbandoni?

Per rispondere, andiamo a controllare i tassi di ingresso nell’università. Il primo grafico si riferisce al totale della popolazione, il secondo alla popolazione sotto i 25 anni.

Niente da fare. Se non aumentano i tassi di ingresso, l’idea di una grande rimonta nella percentuale di laureati appare velleitaria. Ridurre gli abbandoni è doveroso, ma non basta.

4. Perché laurearsi se “meno studi e più trovi lavoro”?

“«Meno studi e più trovi lavoro»? Il mercato conferma”: questo è quello che si leggeva sul Corriere ai tempi della riforma Gelmini. Ma è vero? Per rispondere, consultiamo la XIX Indagine AlmaLaurea sulla Condizione occupazionale dei Laureati.

La crisi ha colpito duro ovunque, ma i laureati sono decisamente quelli che se la sono cavata meno peggio. Anche per le retribuzioni,  la laurea non è ininfluente (p. 25):

Il conseguimento di un titolo di studio più elevato, oltre ad aumentare le chance occupazionali, innalza anche le retribuzioni (OECD, 2016). Il confronto realizzato lungo un ampio arco della vita lavorativa (25-64 anni) mostra che, posta pari a 100 la retribuzione di un diplomato italiano di scuola secondaria superiore, in media un laureato percepisce 142, mentre un adulto in possesso di un titolo inferiore al diploma “solo” 86. Certo, il premio salariale della laurea rispetto al diploma, in Italia, non è elevato come in altri Paesi europei (152 per l’EU22, 158 per la Germania e 148 per la Gran Bretagna), ma è comunque apprezzabile e significativo e, peraltro, simile a quello rilevato in Francia, pari a 1412.

5. Ma bastano 1,6 MLD per abolire le tasse universitarie?

Per rispondere, andiamo a verificare a quanto ammontano le entrate degli atenei provenienti dalla contribuzione degli studenti. La seguente tabella è tratta dall’edizione 2016 del Rapporto biennale sullo stato del sistema universitario e della ricerca, curato dall’Anvur.

Le entrate contributive sono quelle “relative ai corsi di laurea – vecchio e nuovo ordinamento, Master di I e II livello, Dottorati, scuole di specializzazione e perfezionamento“. Quanto varrà il totale delle entrate provenienti dalle tasse pagate per i corsi di laurea? Bisognerebbe prendere 1,8 miliardi complessivi e sottrarre le entrate relative a Master di I e II livello, Dottorati, scuole di specializzazione e perfezionamento. Mancando questi dati, la cifra di 1,6 miliardi del tweet di Grasso appare discretamente verosimile, almeno come prima approssimazione.

6. Conclusioni

Non abbiamo la pretesa di dire se l’abolizione proposta da Pietro Grasso sia l’unica scelta possibile o se sia la più giusta. Crediamo, però, che sia doveroso aprire un dibattito sul diritto allo studio e che non lo si possa fare senza prendere atto dei numeri e dei confronti internazionali.

Un possibile dubbio sulla sostenibilità della proposta riguarda la capacità del sistema universitario di sostenere adeguatamente il più che verosimile incremento del numero di iscritti. Una capacità messa a dura prova da anni di tagli che hanno inciso su un sistema già sottofinanziato. Da questo punto di vista, l’abolizione delle tasse dovrebbe essere accompagnata da un adeguato rifinanziamento degli atenei.

Questo significa che il costo reale dell’operazione potrebbe essere decisamente maggiore degli 1,6 miliardi citati da Pietro Grasso. Un problema a cui si potrebbe ovviare investendo quanto necessario.

Se ciò non fosse possibile, si potrebbe ripiegare su una significativa riduzione delle tasse (soprattutto per le fasce economicamante più deboli) accompagnata da interventi di potenziamento delle strutture (residenze, mense) e dell’offerta didattico-scientifica degli atenei (docenza, aule, laboratori didattici e di ricerca).


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