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A tavola è servita la discriminazione

Questa è una società nella quale un buon numero di famiglie «benestanti» di Pomezia (o di Adro o di vattelapesca dove capiterà la prossima volta) trova legittimo e persino educativo che, nella sfera dei pubblici servizi, chi ha meno riceva meno a partire dalla più tenera età.

22/05/2014
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Corriere della sera

Goffredo Buccini

Non è la prima volta che succede. E, siccome siamo agli sgoccioli di una mefitica campagna elettorale, togliamo di mezzo subito un equivoco peloso (e penoso). Il fatto che Fabio Fucci, sindaco di Pomezia (due passi dalla Capitale), sia un militante del Movimento Cinque Stelle è, per quanto attiene alla storia che segue, del tutto irrilevante a nostro avviso. Non staremo qui a discutere di un programma politico, non a ragionare sui progetti che i grillini hanno per la scuola (talvolta generosi, talvolta magari stralunati, se all’ottimo proposito della diffusione di Internet corrisponde la velleitaria abolizione dei libri stampati in una realtà come la nostra, segnata da un profondo digital divide tra chi ha accesso alle tecnologie e chi no).
Nulla di tutto questo. Qui si discute dell’idea stessa di scuola che si è ormai impadronita non dei fedelissimi dell’ex comico ma di una fetta notevole dell’Italia: ossia un’idea aziendale, fatta di utili e di bilanci, che tralascia quasi in premessa quello che uno splendido film ci raccontava come il «capitale umano».
Accade dunque che, in questa scuola italiana gestita con cuore da manager, i bambini meno ricchi abbiano una refezione più scarsa. Era già capitato ad Adro, per opera di quel sindaco leghista Lancini (poi arrestato per irregolarità sugli appalti e reintegrato in carica dal prefetto) che negava la mensa ai figli di genitori morosi, a quelli che insomma non pagavano in tempo la retta. La sua iniziativa venne presto emulata da altri primi cittadini del Carroccio. E, storia di adesso, è arrivata infine alle porte di Roma, in quella Pomezia che è di fatto industriosa periferia e dormitorio della metropoli. Negli asili e nelle elementari della cittadina, i genitori poveri devono scegliere se lasciare i loro bambini senza dolce o spendere quaranta centesimi in più a pasto: l’efficientissimo Fucci ha infatti avuto la trovata della doppia mensa. Non volendo tagliare (bontà sua) quantità e qualità del pranzo ai bambini, ha deciso di concedere il dolce per merenda solo ai ricchi: gli altri, se lo portino da casa, se vogliono. Il ministro Giannini, a Radio Capital, ha dichiarato di non conoscere bene il caso ma di essere «comunque per l’autonomia scolastica»: «Non mi sembra una situazione di discriminazione», ha aggiunto.
Sul suo profilo Facebook, Fucci ha ovviamente estratto l’argomento della polemica elettorale, sostenendo che lui questo provvedimento lo aveva varato addirittura il 27 dicembre 2013. E soprattutto ha spiegato che l’idea gli è venuta parlando coi genitori che, s’intende, volevano provvedimenti più incisivi, «menù con quantità differenziate di cibo». Noi, francamente, ce ne infischiamo della tempistica. La sostanza ci appare più importante. E la sostanza che Fucci rivela è di grande interesse: perché la scuola, in fondo, riflette un modo d’essere della società. Questa è una società nella quale un buon numero di famiglie «benestanti» di Pomezia (o di Adro o di vattelapesca dove capiterà la prossima volta) trova legittimo e persino educativo che, nella sfera dei pubblici servizi, chi ha meno riceva meno a partire dalla più tenera età. Conosciamo le obiezioni e ci pare di sentirle: ci sono i furbi, i finti poveri, quelli che non pagano la retta e si comprano il Ferrarino. Sarà. Ma ci sono sicuramente i bambini — ricchi o poveri che siano, bambini — che attingono da episodi così una lezione di ferinità che si porteranno appresso per la vita: i conti devono tornare, dal primo banco all’ultimo, come se i banchi fossero una catena di montaggio. Forse i piccoli italiani, così montati nella nostra scuola Spa, domani cammineranno nel mondo più vincenti: di certo, più soli e più cup i.  
 


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