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A proposito della mastrocolata su Don Milani

di Antonio Vigilante

21/05/2007
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Mi era sfuggito questo articolo di Paola Mastrocola su don Lorenzo
Milani - che ha anche suscitato, credo, un certo dibattito su La Stampa.
Articolo che, mi sembra, reca tracce piuttosto visibili di un pregiudizio
che ormai da troppo tempo pesa sul priore di Barbiana: quello che fa di
lui un profeta della scuola facile, che rende tutto semplice e non boccia
nessuno. Pregiudizio che fa pensare che don Milani sia più citato che
realmente letto. Era forse facile la scuola di Barbiana? Era permissiva,
libertaria? Forse qualcuno confonde Barbiana con Summerhill. A Barbiana si
studiava sodo, si obbediva ciecamente, si prendevano frustate sulla faccia
se si disobbediva; si lavorava manualmente, anche. Non vedo in che modo
Mastrocola possa affermare che la scuola di oggi è esattamente quella che
voleva don Milani quarant’anni fa. Non vedo molte frustate nelle scuole di
oggi, e per fortuna. Né vedo molti docenti-padreterni, convinti che lo
studente non abbia il diritto di esprimere la propria opinione su cose
troppo più grandi di lui - anche questa era una convinzione di don Milani,
sulla quale gli agiografi glissano bellamente. Nè vedo alcun lavoro
manuale (quante professoresse griderebbero allo scandalo, se i motori o le
seghe da falegname dovessero entrare nei licei?). Ma, si dirà, nelle
scuole si boccia meno, e don Milani è noto per le sue polemiche contro le
bocciature. Contesto in primo luogo il dato, che non può essere
esclusivamente numerico. Può essere che il numero dei bocciati in assoluto
sia diminuito. Ma io ho la fortuna di insegnare in una scuola proletaria.
Negli ultimi due anni abbiamo bocciato in prima nove alunni alla volta.
Circa la metà della classe. Quest’anno le cose andranno, prevedibilmente,
anche peggio: si prevedono una dozzina di bocciati. Quasi tutti i bocciati
sono ragazzini che provengono dalle famiglie più popolari, più proletarie.
Esattamente gli eredi (certo più smaliziati) dei ragazzi di Barbiana. Se
fosse vivo, don Milani potrebbe scrivermi con i suoi ragazzi - cioè, con i
miei ragazzi bocciati - una lettera sostanzialmente simile a quella
scritta quarant’anni fa, ed io non avrei più argomenti della famigerata
“professoressa”. Perché è un dato di fatto che la scuola rigetta i più
poveri, e questo accade con ogni probabilità perché non è fatta per loro.
Perché non sa che farsene delle loro esperienze, dei loro valori, delle
loro aspirazioni. C’è una sorta di guerra tra la scuola e i poveri. Non
dico che i secondi abbiano tutte le ragioni. Posso ben comprendere le
difficoltà di un docente di musica che debba far comprendere Mozart a
ragazzini che hanno il mito dei neomelodici (eppure don Milani ci
riusciva, a far ascoltare la musica classica ai suoi poveri; forse i
poveri di un tempo avevano una sensibilità musicale migliore di quelli di
oggi). Quello che riesco a comprendere meno è, ad esempio, il sistema dei
crediti formativi. Sono esperienze formative, e come tali da considerare
per la valutazione dell’alunno, il corso di pianoforte e la frequentazione
della palestra. Ma io, ecco, ho un’alunna di terza che si alza la mattina
alle sei e va a lavare i portoni; poi viene a scuola. A volte non ce la
fa, è troppo stanca e se ne resta a casa. Per questo accumula assenze, che
poi influiscono negativamente sulla sua valutazione. Altro che credito
formativo.
Don Milani non voleva la scuola facile. E’ un grossolano fraintendimento.
Don Milani voleva la scuola di tutti, che è diverso. E poneva un problema
culturale che oggi è più urgente che mai: dispone la scuola di una visione
della cultura? E quale? Il suda-e-competi, che Mastrocola sembra
rimpiangere? E’ una visione che non porta molto lontano. La scuola aveva
bisogno ai tempi di don Milani ed ha bisogno oggi di una visione politica,
e non strumentale, della cultura: che riesca a raccogliere le persone al
di là delle differenze di classe ed a metterle insieme per costruire una
realtà diversa. Ai tempi di don Milani ciò non era possibile,
probabilmente, senza quell’odio di classe che tanto irrita la Mastrocola.
Oggi è chiaro che si tratta di liberare la stessa classe borghese dalle
sue ossessioni.
C’è un punto sul quale è facile concordare con Paola Mastrocola. Da
insegnante di lettere e scrittrice, Mastrocola non può condividere
l’attacco di don Milani alla tradizione letteraria italiana, accusata di
essere fatta per i ricchi e di usare perciò un linguaggio che nulla ha a
che fare con la lingua dei poveri. Qui c’è forse un paradosso, in don
Milani. Da una parte spiega ai suoi ragazzi che ogni parola nuova imparata
è un calcio in culo in meno preso dai borghesi. Verissimo. Dall’altra
trasmette l’orrore per quel linguaggio complesso ed astruso che i ricchi
adoperano - nella sua analisi - per meglio imbrogliare i poveri. Se così
è, nulla sarebbe meglio che imparare quello stesso linguaggio, per non
farsi fregare. Approfondire tutte le astruserie antipopolari della
letteratura italiana, per piegarle ai fini della lotta di classe. Parlare
come i potenti per sconfiggere i potenti. Ma don Milani è anche un
sacerdote, e un sacerdote deve ricordarsi dell’invito evangelico alla
purezza, alla castità del linguaggio. Molto superficialmente Paola
Mastrocola afferma che oggi “siamo completamente indifferenti alle acca
del verbo avere”, e che per questo abbiamo realizzato il programma del
priore. E’ realmente un insulto alla memoria del priore, se si considera
il rigore assoluto con cui a Barbiana si correggeva qualsiasi errore
linguistico. C’è in don Milani un rispetto infinito della lingua,
considerata strumento con il quale si afferma la verità e si difende il
bene, e che bisogna salvaguardare da quella sua penosa degenerazione che è
la retorica. Forse quest’etica della parola è il lascito più importante
del priore, e non poco potrebbe soccorrere le professoresse come
Mastrocola, alle prese con studenti che offendono la lingua con lo stile
da sms, ed ai quali non ha da proporre nulla di meglio che l’Iliade
tradotta dal Monti.


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