Unità: Le imprese, la ricerca e la lezione del Lazio
ISTAT Dagli ultimi dati emerge un paese diviso sul fronte dell’innovazione
di Pietro Greco
Nel suo Rapporto Annuale sulla situazione del Paese reso pubblico nei giorni scorsi, l’Istat prende in esame - per la prima volta - anche la capacità di innovazione e di ricerca e sviluppo delle imprese italiane a scala regionale.
Il panorama che ne emerge era largamente atteso. Il paese è diviso anche sul fronte dell’innovazione. I due terzi delle imprese che hanno mostrato capacità di innovare (67,4%) si trovano al Nord, mentre solo il 14,5% è dislocato al Sud e nelle Isole. Il 70,8% della spesa per l’innovazione delle imprese è al Nord, e solo l’11,6% al Sud. Il 74,5% della spesa per la ricerca e lo sviluppo tecnologico delle imprese è al Nord, contro il 10,9% al Sud.
L’analisi dimostra che esiste una differenza, tuttavia, tra innovazione e ricerca. Nel Nord-Est, per esempio l’innovazione procede più speditamente senza ricerca. Nella parte orientale del Settentrione d’Italia, infatti, risiede il 30,6% delle aziende nazionali che innovano: queste imprese spendono il 3,6% del valore aggiunto in innovazione e solo lo 0,6% in ricerca scientifica e sviluppo tecnologico (R&S). Nel Nord-Ovest, invece, risiede il 36,8% delle imprese innovatrici, che investono poco più in innovazione delle loro consorelle dell’Est (il 4,0% del valore aggiunto) ma molto più in ricerca (l’1,2% del valore aggiunto).
In entrambi i casi il Sud è molto più indietro. Le sue imprese investono la metà sia nell’innovazione (meno dell’1,9% del valore aggiunto) sia in R&S (meno dello 0,4% del valore aggiunto).
Questo quadro ci dice che il Nord ha difficoltà a entrare nella società della conoscenza (che presuppone alti investimenti delle imprese sia in innovazione sia in R&S). Mentre il Sud del paese ne è del tutto fuori. E qui è possibile trovare molte delle cause che concorrono al «declino italiano». Comprese le cause che concorrono a mantenere bassi sia la produttività sia gli stipendi medi dei lavoratori italiani.
Tuttavia c’è un altro dato molto significativo che ci propone l’Istat. Riguarda il Lazio. In questa regione sia la spesa delle imprese in innovazione (3,2% del valore aggiunto) sia la spesa delle imprese in R&S (0,6% del valore aggiunto) è piuttosto mediocre. Entrambe più alte che nel Sud, ma più basse che nel Nord del Paese. Tuttavia nel Lazio la produttività dei lavoratori è altissima: di gran lunga la più alta del paese. Perché? Una delle ragioni è appena indicata dagli analisti dell’Istat. Ma merita di essere approfondita.
Nel Lazio c’è un’altissima (relativamente all’Italia) concentrazione di spesa pubblica in ricerca scientifica e in alta educazione. Ci sono molte università, tra cui la Sapienza; ci sono le sedi centrali e molti istituti del Cnr e dell’Enea; ci sono l’Istituto Superiore di Sanità e molti grandi ospedali; c’è il Laboratorio nazionale dell’Infn di Frascati; il centro di ricerca della Casaccia e via elencando. In altri termini c’è una «concentrazione di conoscenza pubblica» e di «produzione di conoscenza curiosity driven» che non hanno pari in Italia. È questa concentrazione che, molto probabilmente, crea un ambiente adatto e - malgrado la povertà relativa delle imprese - generano innovazione e incremento della produttività del lavoro.
Sarebbe bene approfondire la lezione che ci viene dal Lazio (in pieno accordo con analisi relative ad altri paesi). Ma sarà bene, soprattutto, non dimenticarla. Soprattutto da parte di chi considera un lusso per il nostro paese la scienza di base e vorrebbe procedere a potenti iniezioni di «mercatismo» nell’università e, addirittura, alla privatizzazione degli Enti pubblici di ricerca. Favoriamo la transizione da un modello di sviluppo senza ricerca a un modello di sviluppo fondato sulla ricerca delle aziende italiane. Ma potenziando, non erodendo, la ricerca di base e l’alta formazione in università pubbliche.