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Unità/Emilia Romagna: «Per noi non c’è futuro e nemmeno presente»

Lettera di una ricercatrice di Fisica «emigrata per disperazione»: «Come può progredire l’Italia se investe nella ricerca meno dell’1% del Pil mentre il resto dell’Europa è al 3%?»

26/09/2010
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l'Unità

Serena Fagnocchi, ricercatrice di fisica

Ho conseguito il dottorato di ricerca in Fisica nel 2005cui sono seguiti contratti di ricerca in vari istituti (Bologna, Roma, Trieste). Da un po’ sono emigrata per disperazione. Sì, perché qui in Italia non c'è futuro per noi. Non c'è neppure presente ad essere sinceri. Per noi ricercatori precari esiste solo un lunghissimo limbo fatto di obbedienza, attesa, promesse fasulle, promesse sincere ma disattese «perché la nuova finanziaria ha tagliato altre risorse» o perché «quello scampolo di borsa di studio è stato riassorbito», oppure «perché il posto del professore ordinario andato in pensione è stato riassegnato al 20%», oppure... c'è sempre un oppure per noi, che pure svolgiamo un lavoro di altissima qualificazione accontentandoci di stipendi indecorosi, ridicoli se confrontati agli altri paesi, senza diritti, sempre sotto il ricatto di chi può trovare un varco anche per te in questo mondo. La situazione dell'Università in Italia è drammatica. Frutto di decenni di abbandono, se non di sistematico smantellamento, come quello cui si sta assistendo con questo Governo. Parlano di qualità e merito,e intanto tagliano gli investimenti già gravemente anemici e intorbidiscono i metodi di assunzione. Mi si vuole spiegare come si intende alzare la qualità della ricerca in Italia se si investe meno dell'1% del PIL, mentre Stati Uniti e Europa Occidentale stanno al 3%, e stati come Israele quasi al 5%? Ma non è solo un problema «di fondi», ma di fondo. Del ruolo che l'Università deve avere nella società di un Paese: formazione della persona e del pensiero, veicolo di nuove idee e punta di diamante nel dialogo con la società produttiva, che per affrontare le nuove sfide che questo mondo ci propone può competere solo puntando sulla qualità e sul sapere dietro ogni prodotto. Invece da noi la percentuale di laureati è al 14%, la metà esatta della media OCSE e lontanissimi daquel40%fissato dall'Europa come obiettivo per il 2020. I dottori di ricerca non si sa neppure cosa sono, figuriamoci se si sa cosa farsene. E tutto questo mentre il Governo dice che da noi ci sono troppi laureati, che non servono. I ricercatori di Bologna stanno mettendo in atto forme dure di protesta come il blocco degli insegnamenti. Forse occorre ricordare che la didattica non è tra gli incarichi dei ricercatori, sui quali invece grava una parte molto consistente dei corsi. Essi stanno usando l'unica leva che dispongono per far valere i loro diritti, sia difendendo dall'attacco del governo quelli acquisiti (pochi) sia quelli che rivendicano (pochi anche questi, solo minima decenza). Hanno tutto il mio appoggio, e spero vivamente che siano con loro tutte le varie anime dell'Università (dagli Ordinari al Rettore, agli studenti) in uno spirito finalmente coeso e forte, per il bene di tutto il sistema, abbandonando logiche piccolo-protezionistiche. Come disse Riccardo Giacconi, premio Nobel per la Fisica nel 2002: «Finché in Italia fare il ricercatore non è considerata una professione come le altre,ma piuttosto una missione, come per frati e preti, non esiste futuro per la Ricerca del Paese. Essa dovrebbe attrarre i cervelli migliori e valorizzarli, invece li mortifica e li costringe ad emigrare regalando ad altre nazioni la nostra materia prima migliore, e chi resta non è necessariamente il migliore,mail più tenace, il più raccomandato, il più manipolato ».È ora di invertire questa direzione.


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