ScuolaOggi: L'intesa sull'apprendistato della Regione Lombardia. Il disegno di Formigoni e Gelmini
Antonio Valentino
La Lombardia apripista. Meglio, la prima della classe, com’è nello stile del Governatore Formigoni.
Il riferimento è all’intesa recente (27 settembre) tra il Ministro Gelmini, il Ministro Sacconi e Formigoni, appunto.
Premessa: nel gennaio 2010, nella Commissione Lavoro della Camera, un parlamentare PdL, certo Cazzola, presentò un emendamento alla legge in vigore sull’apprendistato (D.Lgs 276/2003), tendente ad anticiparlo a 15 anni come canale per l’assolvimento dell’obbligo. Ne seguì un dibattito acceso il cui esito è stato una disposizione finale che rimetteva alle Regioni la regolamentazione relativa al limite di età e non solo. Ma prevedeva, se non erro, un successivo passaggio nella Conferenza Stato-Regioni.
L’intesa di cui stiamo parlando si inserisce in questo iter e si muove dentro questa logica per cui l’obbligo di istruzione, innalzato finalmente a 16 anni con l’ultimo governo Prodi (L. 133/2008), può essere “espletato”, come si dice in linguaggio burocratico, anche fuori dalle aule scolastiche o nei centri regionali per l’istruzione e la formazione: aziende e imprese, attraverso appositi contratti e in base ad accordi con la Regione, possono farsi carico di tale obbligo costituzionale che ingenuamente abbiamo sempre pensato dovesse essere dello Stato.
Vediamone i punti qualificanti:
- i contratti di apprendistato verranno promossi nella Regione Lombardia (RL) per realizzare il diritto dovere di istruzione e formazione (recepimento totale dell’ "emendamento Cazzola”)
- Finalità della “prima fase di attuazione dell’A: individuare un modello per il raggiungimento delle Qualifiche Professionali
- La RL mette a disposizione “risorse già definite con le associazioni di rappresentanza del comparto artigiano…”.
In premessa, tra l’altro, si citano
- il c.4 bis dell’art. 64 della L. 133/08, riguardante l’assolvimento dell’obbligo nei percorsi di Istruzione e Formazione Professionale (doveva essere un argine: ci voleva un ministro sedicente socialista per farlo saltare)
- il c. 3 dell’art. 2 del DPR 8 7/2010 (nuovo Regolamento per l’Istruzione Professionale), “che consente agli Istituti di svolgere, in regime di sussidiarietà, un ruolo integrativo e complementare…ai fini del conseguimento, anche nell’esercizio dell’apprendistato, di qualifiche di Istruzione e Formazione Professionale…”. (Nessuno era riuscito finora a spiegare, sul piano logico-formale, il senso dell’inciso sull’apprendistato; ma evidentemente c’era dietro un pensiero lungo, che si sarebbe col tempo “appalesato”: e il tempo è finalmente arrivato e l’oscurità rischiarata)
Questi passaggi dell’intesa – ma non c’è altro nel testo di nuovo e qualificante - che Formigoni definisce (per chi ci crede) "una riforma di altissimo valore culturale" e un “accordo lungimirante” - cosa ci dicono?
Senza “se” e senza “ma” (l’efficienza lombarda ha le sue regole), si stabilisce
- che l’apprendistato costituisce percorso valido per l’assolvimento dell’obbligo di istruzione
- che viene superata la norma, che fissa, per il contratto da apprendista, il limite a 16 anni; superamento che può significare che un limite non c’è e che l’apprendistato per assolvere l’obbligo scolastico può cominciare anche all’uscita dal primo ciclo (ex terza media).
Ci dice inoltre
- Che questa intesa ha naturalemente un costo e che i principali fruitori delle risorse finanziarie previste sono le aziende artigianali;
- Che potrà essere conseguito, anche attraverso l’apprendistato, la qualifica professionale; senza però ulteriori specificazioni.
Il punto centrale è ovviamente costituito dal fatto che ragazzini di 15 anni (e forse anche di 14) potranno assolvere l’obbligo di istruzione - che con la L. 133/2008 del Governo Prodi si sostanzia nelle otto competenze chiave di cittadinanza, sulla scia delle Raccomandazioni europee - non solo a scuola o nei centri regionali di FP, ma anche nelle imprese artigianali.
Tento a questo punto alcuni ragionamenti e considerazioni per capirci di più.
1. Nessuno nega ovviamente che il lavoro abbia un valore educativo e che l’azienda possa essere una scuola di vita e l’ambiente più adatto per imparare un mestiere e acquisire competenze per una qualifica professionale. Né è in discussione l’importanza dell’apprendistato e le possibili necessarie alleanze della scuola col mondo delle imprese e del lavoro per una formazione professionale qualificata e per una buona formazione tout court.
2. Ciò che va però richiamato al riguardo è che la legge per l’innalzamento dell’obbligo di istruzione – e “l’obbligo” costituzionale a cui si collega – parla d’altro: parla del cittadino, delle competenze chiave, della cultura di base. Non di altro. Strategie e percorsi possono essere diversi, ma le responsabilità non possono non essere in capo a istituzioni e soggetti qualificati per obiettivi che hanno a che fare con la formazione della cittadinanza.
Nella quasi totalità dei paesi europei, all’apprendistato si accede dopo i percorsi di istruzione che in genere vanno fino ai 16 anni. E questo perché l’istruzione, la scuola sono considerate risorse fondamentali anche per garantire uguaglianza di opportunità, equità e mobilità sociale. Questo raccomanda anche l’UE.
Nel nostro paese si tende a ignorarlo.
3. E’ indubbio che intese come quella sottoscritta recentemente vanno lette anche come effetto di un almeno parziale fallimento del mondo della scuola sul fronte del contrasto all’insuccesso scolastico e al fenomeno degli abbandoni, soprattutto nei primi due anni della scuola superiore.
Il problema dei ragazzi difficili o con difficoltà economiche – in altre parole, quelli più bisognosi di attenzioni e di interventi mirati – spesso si tende a risolverlo espellendoli dalla scuola anche in età scolare. L’impegno delle scuole su questo terreno è certamente enorme, ma non sufficiente, perché richiede cultura professionale e professionalità, riconoscimenti e risorse, spazi e strumenti che invece non si danno. E non si danno perchè politiche scolastiche miopi continuano a prevalere nelle scelte governative e ministeriali. Si consideri la questione degli scarsi o nulli investimenti nella riqualificazione professionale, o l’assenza di politiche del personale che premino l’impegno in aree di particolare difficoltà e i risultati dell’azione didattica. E, su un altro versante, il fenomeno delle classi prime di 30 studenti, – che è causa non ultima delle ripetenze e degli abbandoni nei primi due anni dei Tecnici e dei Professionali –, dei tagli feroci delle compresenze, per le attività di laboratorio nei primi anni degli IT e degli IP ecc. ecc..
Questo ovviamente non assolve le scuole dalle loro responsabilità (tra l’altro, non mancano insegnanti che vedono di buon occhio intese di questo tipo, che “scaricano” su altri soggetti gli studenti più problematici; e non è facile dare loro torto, considerate anche alcune condizioni di lavoro); ma certamente permette di non avere dubbi su chi è causa prima degli abbandoni.
Se è così, appare chiaro che l’operazione che sta dietro a questa intesa, per come si configura, sembra dirci altro rispetto alle affermazioni del Governatore Lombardo (“L’accordo … ci permette di recuperare decine di migliaia di giovani e dare loro un riconoscimento…”) e ci parla piuttosto di un disegno che trova conferma in altre scelte e investimenti della Regione Lombardia (vedi la politica del Buono scuola; ma anche le scelte sulla Sanità, in parte, riconducibili a questa “visione”).
Tale disegno si evidenzia attraverso il paradosso – apparente – che c’è dietro l’intesa. Paradosso che si esprime nel fatto che, per le azioni di recupero del disagio sociale, non si pensa di potenziare le istituzioni preposte, qualificandone contenuti, migliorando la preparazione di docenti ecc. ecc.; ma si cerca di affidarle a soggetti che hanno altre funzioni e compiti. E ciò nella presunzione che il lavoro sia in sé strumento taumaturgico.
In ragione di questo paradosso, non è difficile cogliere la “visione” del Governatore – che è la “visione” di questo governo – da cui nasce il disegno di privatizzare al massimo l’istruzione e la formazione, appaltandola a strutture ed enti che pure hanno altre “missioni”. E spacciando il tutto come modernità e “valorizzazione del capitale umano” (Formigoni).
Si capisce in questa luce la politica di depotenziare di fatto l’istruzione e la formazione pubblica, permettendo operazioni che introducono nel sistema elementi di discriminazione e costituiscono di fatto strumenti di iniquità e immobilismo sociale.
Come se ne esce?
Penso che le parole d’ordine di quanti ritengono che questo tipo di intesa sia iniquo e rischioso - e che confligga con l’idea di un paese più giusto e bisognoso di mobilità sociale - debbano tendere a spingere le altre regioni a fare scelte diverse e a chiedere con tenacia e insistenza
· che le risorse che si investono in queste operazioni vadano piuttosto investite nella scuola pubblica;
· che la scuola pubblica vada seriamente qualificata con forti investimenti e non coi tagli.
Ma devono anche essere volte a richiamare a noi stessi che la scuola deve sviluppare consapevolezza
· del depotenziamnto della sua funzione sociale che c’è dietro scelte di questo tipo; e quindi
· della necessità di diventare protagonista del suo cambiamento e della sua “riforma”: condizione necessaria per impedire o almeno contrastare alle origini le ragioni di un ricorso al canale dell’apprendistato, nelle regioni in cui si sottoscrivessero intese uguali a quella lombarda.
Senza tale riforma nessuna altra è possibile e i problemi di cui parliamo sarebbero destinati a rimanere tali o a permettere e legittimare soluzione sbagliate.
Litanie, convengo, di cui non se ne può più e che gli accordi di Formigoni – e compagnia cantando – ripropongono in termini ormai difficili da tollerare.
Ma solo la Mercegaglia, mi chiedo a questo punto, può dire che si è ormai esaurita la pazienza?