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Repubblica-Torino-"Noi che sappiamo regalare la parola"

In molti istituti, specie nelle elementari, non ci sono più soldi per gli insegnanti dei corsi speciali di italiano Tagliati i prof per i bimbi stranieri Allarme nelle scuole: "Così si...

22/04/2005
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la Repubblica

In molti istituti, specie nelle elementari, non ci sono più soldi per gli insegnanti dei corsi speciali di italiano
Tagliati i prof per i bimbi stranieri
Allarme nelle scuole: "Così si blocca l'integrazione"
A rischio per i continuo tagli delle risorse i corsi per i bambini stranieri. La denuncia arriva dai dirigenti scolastici degli istituti più a rischio della città, dove la presenza di bimbi di diverse etnie arriva al 50 per cento con punte del 70% nelle prime classi. In diversi istituti questi insegnanti di sostegno che rientrano nel cosiddetto "personale funzionale aggiuntivo" sono già stati eliminati. Pesanti le ripercussioni. Il rischio è di ghettizzare ulteriormente questi bambini che non possono comunicare con i compagni e seguire normalmente le lezioni.
'INTERVISTA
Il racconto di un insegnante impegnato con i "nuovi" allievi
"Noi che sappiamo regalare la parola"
i modi Offrire l'uso dello scrivere e poi del leggere è un dono
i tempi È un lavoro lungo che non può essere interrotto così
MAURIZIO CROSETTI


(segue dalla prima di cronaca)
Quanti sono gli stranieri nella vostra scuola?
"In quest'ultimo anno scolastico, 276 su 695. Per il prossimo ne prevediamo almeno 328. Appartengono a ventidue diverse etnie, e si calcola che in certe zone di Torino si potrà arrivare al settanta per cento. Ora siamo attorno al cinquanta".
Lei, che lingue straniere conosce?
"Inglese e francese, che però non servono con gli allievi cinesi. In quel caso, ci aiutano bambini più grandi che hanno già seguito un corso di alfabetizzazione, sono in pratica degli interpreti, e poi ci sono i mediatori culturali che stabiliscono anche un contatto ulteriore con le famiglie".
Come si svolge, concretamente, il suo lavoro?
"Abbiamo un laboratorio linguistico e informatico, dove per 24 ore alla settimana mi reco con i ragazzi. Lì si impara ad ascoltare, si parte da zero, è un viaggio dentro la parola ma è anche un modo per inserirsi nella nuova realtà, per essere accettati. Un corso di alfabetizzazione e di integrazione insieme: è chiaro che intervengono anche i compagni di classe italiani, per fortuna i bambini collaborano sempre molto tra loro, e questo facilita le cose anche a noi insegnanti".
In quanto tempo si riesce a superare il primo scoglio della comprensione?
"Non esiste una regola fissa, è un lavoro lento e quotidiano, un impegno tenace da parte di tutti. Il percorso completo prevede il raggiungimento delle quattro abilità: ascolto, parlato, lettura e scrittura. Ognuno ha i suoi tempi di apprendimento. Un romeno o un sudamericano fanno più in fretta di un cinese o di un marocchino, perché è inferiore la distanza linguistica e culturale".
Questa "prima accoglienza" diventa poi insegnamento vero e proprio?
"Certo, anche se il muro della comunicazione è il più difficile da abbattere. Un passo importante si percorre quando i ragazzi riescono a usare i libri di testo, che però a volte sono difficili anche per i bambini italiani. Avere familiarità con un libro, per studiare o per leggere, è una conquista fondamentale".
Tutto il lavoro è sulle spalle degli insegnanti, o esiste qualche supporto tecnologico?
"Nel laboratorio abbiamo software didattici, anche se l'esperienza personale è insostituibile. Quando si parla di comunicazione, il rapporto personale tra chi parla e chi ascolta è decisivo".
Cosa accadrà se davvero le vostre cattedre venissero "tagliate"?
"Si negherebbe ai ragazzi una fondamentale opportunità di inserimento, i tempi sarebbero più lenti, gli altri insegnanti dovrebbero portare tutto il peso, e per forza di cose rallentare il passo per non lasciare indietro gli allievi stranieri. Ma in questo modo rischierebbero di rimetterci gli italiani, perché anche loro hanno diritto a svolgere bene il programma".
Pare di capire che non è solo un problema culturale.
"Infatti, questo è anche un tema sociale, riguarda la convivenza umana e la realizzazione di quella che chiamiamo comunità di individui. E' come se venissero chiusi i centri di prima accoglienza. Lo smarrimento sarebbe totale. E ci sarebbero enormi problemi di continuità didattica: non ha senso interrompere un progetto a metà".


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