Repubblica/palermo: Le aspiranti veline e i professori in crisi
È forse mancato un momento di riflessione più articolato su fatti come quelli di Gela o della scuola media di Palermo
GIORGIO CAVADI
Qualche giorno fa la lettrice Maria Anna Ferrara ha scritto una lettera in cui rimproverava il nostro giornale di interessarsi al mondo della scuola dibattendo su alcune questioni quali il valore della bocciatura, ignorando invece fatti di cronaca assai gravi che hanno visto docenti di scuole palermitane e siciliane vittime di gravi fatti intimidatori e comunque di episodi che sconfinano nel penale (aggressioni, minacce ma anche processi), senza spendere una parola per quegli insegnanti che, proprio per il fatto di svolgere con consapevolezza e senso del dovere il proprio compito di educatori, vengono fatti oggetto di minacce e ritorsioni di ogni sorta.
In questa osservazione c´è, in effetti, un fondo di verità, anche se dobbiamo dire che le cronache locali e nazionali si sono occupate abbastanza dettagliatamente di questi fatti. È forse mancato un momento di riflessione più articolato su fatti come quelli di Gela o della scuola media di Palermo in cui una docente ha invitato un´alunna a recarsi a scuola vestita in modo meno succinto in modo da non scatenare le pruderie dei compagni, per non parlare dell´alunno ripetutamente invitato a maturare la consapevolezza di essere «un deficiente» dopo aver vessato ripetutamente un compagno ritenuto di non specchiata mascolinità.
L´impressione che si ricava leggendo queste cronache è molteplice: da una parte c´è un interesse dei media talvolta voyeuristico, in linea peraltro con una tendenza che riguarda un approccio diffuso alla cronaca da parte dei mezzi di informazione e che è frutto della pansessualità della società contemporanea.
Dall´altro non sfuggono due considerazioni: la prima è la definitiva rottura del patto o contratto formativo fra istituzione scolastica e famiglia, intesa quest´ultima come luogo di educazione (o diseducazione) primaria che dovrebbe agire in sintonia piena e consapevole con la scuola. La battuta che circola nelle scuole, e cioè che ormai i genitori sono divenuti i sindacalisti dei propri figli, la dice lunga sulla percezione del rapporto scuola-famiglia ormai giunto al suo punto di rottura, dopo le chimere post-sessantottine della collegialità degli anni Settanta e il familismo paracattolico della Moratti.
Quando i genitori non si presentano imbufaliti a scuola, a difendere l´indifendibile dei propri figli, quali assenze ripetute, atti di bullismo, mancato rispetto delle regole del vivere comune e delle consegne del docente (i famigerati compiti per casa); quando non passano alle vie di fatto aggredendo gli insegnanti, passano direttamente alle vie giudiziarie, convinti che un giudice saprà loro dare quella ragione che la cattiva educazione dei figli merita. E qui andiamo al secondo aspetto di questi fatti di cronaca: quella che appare una certa inadeguatezza dei codici, ma anche di chi li maneggia, nell´intervenire nei delicati snodi dei processi educativi e formativi.
Qui non si tratta di difendere una categoria, ma certo le deliberazioni prese dal magistrato che ha avuto in carico il caso dell´insegnante dell´alunno «deficiente» hanno lasciato molti colleghi di svariate tendenze politiche francamente esterrefatti. Il passaggio poi dall´accusa di omessa vigilanza (ma chi vigila nei bagni delle scuole italiane?) a quella di violenza sessuale per i professori di una scuola palermitana che non si sono attivati pienamente per evitare episodi di molestie sembra veramente eccessiva e dimostra, ci pare, una scarsa conoscenza da parte dei magistrati degli spazi, degli equilibri e delle stesse dinamiche relazionali che si svolgono a scuola.
Faccio un paio di esempi: qualche tempo fa una docente mi raccontava che nella succursale di una scuola media della periferia di Palermo la cosiddetta aula informatica ha disponibili solamente quattro postazioni. Ora, proprio per evitare contatti fisici "troppo ravvicinati", con alunni stipati in spazi ristretti o magari seduti uno sull´altro, ha preferito non portare per nulla la classe nell´aula, privando questi ragazzi di un momento formativo essenziale per il loro futuro, ma evitando di fornire occasioni per contatti troppo ravvicinati. In questo caso viene certamente leso il diritto allo studio di questi ragazzi, ma con i tempi che corrono, si è detta l´insegnante, meglio evitare possibili guai.
È un caso limite, ma che la dice lunga sul clima che si respira nelle scuole. Dove peraltro il senso della misura si è perso da tempo. Pochi giorni fa, da presidente di commissione agli esami di Stato in un prestigioso liceo della città, ho invitato una studentessa a "rivestirsi", almeno indossando una maglietta sopra la canottiera alla Stallone-Rambo, con la quale si era presentata a sostenere il colloquio di maturità. Un´altra volta, entrando in una mia classe, mi hanno accolto, in bella vista, le natiche di un´alunna, seduta di spalle alla porta, causa pantaloni con vita alla caviglia, la quale al mio pacato invito a rimettere un po´ d´ordine nel suo fondoschiena mi ha risposto: «Ma a lei gli occhi perché ci vanno lì?». Confesso di non avere risposto nulla, perché ancora, dopo ventitré anni, professionalmente poco attrezzato a insegnare ad aspiranti veline o troniste. Ogni commento, anche negativo nei confronti di chi scrive, è lasciato alla libertà del lettore.