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Repubblica/Palermo: Il lassismo e la serietà nelle scuole palermitane

Questione educativa e rapporto con le famiglie

19/10/2007
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la Repubblica

MAURIZIO MURAGLIA

Su Repubblica di sabato scorso, Giorgio Cavadi, come già anche Augusto Cavadi il 20 luglio scorso, ripropone un tema a lui caro, quello dell´ignoranza e del lassismo diffusi nella scuola, stigmatizzando «i facili sociologismi» di chi si ostina a guardare alle condizioni delle classi sociali più disagiate della nostra città. Al di là delle contingenze legate magari agli esami, credo che la posta in gioco del dibattito sia più alta. Così come del resto lascia intravedere il riferimento di Cavadi agli «sganassoni» di Don Milani. È la posta in gioco della questione educativa. Discutere pubblicamente di questa, a mio avviso, può soltanto portare beneficio a chi opera nel settore e, indirettamente, a tutti, visto che la scuola è affare di tutti.
Il discutere di "lassismo" e di "serietà" presuppone con tutta evidenza un approccio all´esistente che vede de-generazione educativa nei nostri ambienti scolastici. È quel che i media veicolano e che tanti opinionisti recepiscono e amplificano. In questa prospettiva, a me pare che il dibattito sulla questione educativa potrebbe trarre giovamento dall´idea che, se una o più cose non vanno, non è detto che la soluzione migliore consista nel tornare a come si stava prima. Un po´ di creatività pedagogica potrebbe anche far pensare che sia necessario piuttosto andare avanti, che cioè la ricerca di correttivi ad alcune indubbie derive educative, che poi si traducono in ignoranza diffusa, non debba comportare di necessità il buttar via qualcosa, per il semplice fatto che niente, in se stesso, è da buttar via: né il libro né la televisione né la bocciatura né la promozione né la nozione né il metodo.
Un mio amico, che non è addetto ai lavori, recentemente mi ha accusato di permissivismo ed è sbottato invocando delle leggi (sic!) che la facciano finita con questo modo vergognoso di indossare i jeans da parte delle nostre ragazzine. Mi fece pensare ai carabinieri di Bocca di rosa e al brigadiere de La lupa di Verga. Ho provato a immaginarlo, un simile decreto, che indica quanta parte di corporeità indecente è consentito evidenziare. Ho provato a immaginare cosa potrebbe significare entrare in classe col metro e anziché fare matematica o storia (possibilmente bene) perdere un´ora intera a prendere le misure ai jeans e alle scollature. Non solo non son riuscito a convincere il mio amico che il buon senso è preferibile al decreto, ma ho incrementato la sua ira col mio insopportabile relativismo: «eppoi chi lo stabilisce qual è il buon senso?».
Ma il mio amico non è un addetto ai lavori. Gli addetti ai lavori invece dovrebbero sapere che l´ansia di trovare soluzioni forti o «terapie» che dir si voglia può far dimenticare che in educazione, come ben sa chi ha figli, non ci sono interventi validi una volta per tutte e dovunque, e che i modelli educativi, così come i modelli didattici, sono plurali, e il ragionamento sull´educazione procede più per interrogativi che per soluzioni.
Laicità e pluralismo sono due termini che dovrebbero essere cari alla cultura cosiddetta progressista. Ma in educazione possono rappresentare un problema anche per qualche opinionista sedicente progressista, perché costringono ad ammettere che possano esserci approcci educativi differenti e che risulti impossibile demarcare nettamente ciò che è educativo da ciò che non lo è. Come la famiglia non può insegnare alla scuola come si fa scuola, allo stesso modo la scuola non è la titolare dell´approccio educativo «giusto» e non può insegnare alla famiglia come si educa per almeno tre ragioni: prima, perché, in quanto pubblica e laica, non è il suo precipuo compito istituzionale, cui accede solo indirettamente attraverso un uso «educativo» dei saperi; seconda, perché non è detto che all´interno di uno stesso gruppo di insegnanti ci si riesca a metter d´accordo su come si educa; terza, perché quand´anche si trovasse l´accordo non è detto che gli insegnanti la sappiano più lunga dei genitori.
Tutto ciò non vuol dire alzare bandiera bianca sull´educazione, per quanto alzare bandiera bianca risulterebbe forse, per quanto non auspicabile, intellettualmente più onesto che invocare misure esemplari e ritorni nostalgici alla scuola di una volta. Vuol dire semmai rinunciare alle semplificazioni mediatiche e tentare azioni coordinate e prolungate su almeno quattro tavoli: il tavolo del rapporto scuola-famiglia, perché la smettano di litigare fingendo di non sapere che rispecchiano in modi diversi la stessa società; il tavolo del rapporto docenti-studenti, ma senza pregiudiziali snob su piercing, vestiti e miti televisivi e abbandonando una volta per tutte l´idea che i ragazzi abbiano soltanto segatura nella mente e nel cuore; il tavolo dei saperi della scuola, magari rimettendo a fuoco la reale incidenza formativa di alcuni argomenti che si trattano nelle nostre aule; e infine il tavolo della formazione in servizio degli insegnanti, per evitare che il dibattito sui modelli educativi resti appannaggio di pochi insegnanti-giornalisti e consentire invece che divenga carne e sangue della ricerca e del confronto tra quelli che, casualmente, quando la nave affonda, dicono sempre che la cosa più gratificante per loro è stare in classe con i ragazzi. Forse per dar loro qualche salutare «sganassone».


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