La scuola nel Veneto: ma dov'è la riforma Moratti?
La scuola nel Veneto: ma dov'è la riforma Moratti? Un ritorno per inerzia tra i banchi, molte aspettative rischiano di frantumarsi Andrea Colasio Deputato dell'Ulivo Commissione Istruzione e Cult...
La scuola nel Veneto: ma dov'è la riforma Moratti?
Un ritorno per inerzia tra i banchi, molte aspettative rischiano di frantumarsi
Andrea Colasio Deputato dell'Ulivo Commissione Istruzione e Cultura della Camera
L'esercito della scuola veneta si è messo in moto. Un esercito con oltre 51.000 docenti, 18.466 profili amministrativi, dai direttori e dirigenti d'istituto ai collaboratori scolastici, il tutto suddiviso tra le 743 istituzioni scolastiche presenti nel nostro territorio. A questi si aggiungono i "riservisti": il battaglione dei precari che, Tar del Lazio permettendo, attende con ansia la definizione delle graduatorie e l'assegnazione della cattedra. Un vero e proprio sistema organizzativo complesso pronto ad accogliere il mezzo milione di allievi della regione, a partire dai 40.000 delle materne per arrivare ai 165.000 delle superiori. Accanto alle certezze restano, e non pochi, i dubbi e gli interrogativi. Docenti, alunni e relative famiglie si stanno infatti chiedendo quali siano stati i mutamenti conseguenti alla riforma annunciata a giugno del 2001 dal ministro Moratti. Cosa è cambiato, oggi, nella scuola? La sola cosa certa è che la riforma dei cicli messa in cantiere dal centrosinistra, sulla quale si può sospendere il giudizio, è stata bloccata, ma non ancora abrogata; tutto il resto è oscuro.
L'anticipo, ovvero l'entrata in classe anticipata per i bambini delle materne, a due anni e mezzo, e delle elementari, a cinque anni e mezzo, è osteggiata dall'Anci, da molte sigle sindacali, da diverse associazioni di genitori, da molti pedagogisti. Per i Comuni il problema è concreto: l'anticipo significa più classi, e quindi più aule da predisporre; ma, ribattono gli enti locali, non ci sono i soldi, e comunque la questione va almeno concertata. L'anticipo è valutato negativamente da molti docenti e studiosi, per i quali il cosiddetto "precocismo" si tradurrebbe in uno slittamento delle materne verso una funzione assistenziale: ai bambini di due anni e mezzo, replica qualcuno, si devono cambiare ancora i pannolini. Per i pedagogisti, non tutti ad onor del vero, si tratta di rispettare i tempi naturali dello sviluppo dei bambini: un tempo per il gioco e le relazioni, un tempo per l'apprendimento all'interno delle istituzioni scolastiche. Su questo fronte invece della riforma avremo una fase sperimentale, di verifica: progressivamente si è ridotto però il numero delle realtà scolastiche all'interno delle quali procedere con la sperimentazione. Oggi, siamo a due Circoli per provincia, il che significa, 200 istituzioni scolastiche in tutta Italia. Ma, dicono i sindacati, per procedere ci vuole il parere dei Collegio docenti, che nessuno, dal ministero, ha sentito. Insomma nulla di chiaro.
Sul maestro prevalente alle elementari è giustamente polemica: le nostre scuole elementari sono all'avanguardia in Europa, anche grazie alla professionalità dei vari profili; con la riforma si torna indietro di molti anni. Sull'inglese sin dalla prima elementare e sull'insegnamento precoce dell'informatica non si può che essere d'accordo; il Progetto Lingue 2000 non attendeva però certo la Riforma per decollare, ed è in realtà, già da anni, patrimonio condiviso da molte istituzioni scolastiche venete.
Altro sul tappeto non c'è. Ma dov'è allora la riforma Moratti? Sia detto esplicitamente, qui non interessa far polemica, ma discutere sul destino della scuola italiana. Poiché una riforma costa e le risorse sono decrescenti, sarebbe opportuno tentare di individuare le priorità su cui concentrare le risorse disponibili. Va però almeno condiviso l'obiettivo, che dovrebbe essere quello di elevare il tasso di scolarizzazione, facendo crescere il numero dei diplomati e dei laureati su standard che ci avvicinino all'Europa, riducendo il grave fenomeno della dispersione e dell'abbandono scolastico. Si dovrebbe allora lavorare sull'elevamento dell'obbligo scolastico; andrebbe affrontato, senza barricate ideologiche, il nodo del pluralismo scolastico: il sostegno alla scuola privata non deve comportare però la destrutturazione e il degrado della scuola pubblica.
Si tratta poi di capire se l'ipotesi di creare un doppio canale, istruzione da un lato e formazione professionale dall'altro, serve a far crescere il capitale culturale globale del Paese, o se invece non si corra il rischio di avviare precocemente i ragazzi, a tredici anni, verso la formazione professionale. E sia detto per inciso, la formazione professionale, che nel nostro Veneto presenta punte di eccellenza, non è scuola di serie B, o ricettacolo per coloro che si scontrano con la dura realtà dell'insuccesso scolastico, ma dovrebbe rappresentare un'offerta formativa congruente con la scelta professionale del ragazzo. Ma lavoriamo, allora, perché questa scelta maturi consapevolmente e non consegua a forzature culturali o a una "naturale" selezione per ceto e capitale culturale delle famiglie. Il rapporto tra le istituzioni scolastiche, la cui autonomia va difesa e rafforzata da ingerenze politiche, ed il mercato del lavoro delle nostre diverse comunità locali va accresciuto: la scuola deve rispondere alle esigenze del contesto in cui opera, ma stiamo attenti alle chiusure localistiche: il nostro mercato, il nostro reale scenario culturale ed economico è, e sempre più sarà, l'Europa.
A conti fatti si è perso un altro anno; il fatto che la riforma possa essere calibrata su tempi più lunghi dovrebbe permetterci di poterne discutere più distesamente, coinvolgendo e responsabilizzando tutte le parti interessate al destino della nostra scuola. Le Istituzioni scolastiche italiane e venete non sono aziende cui praticare una cura da cavallo, con tagli dei rami secchi e licenziamento del personale; sono realtà più complesse il cui buon stato di salute e la cui funzionalità oggi, ci permetteranno, un domani, di poter giocare il nostro ruolo in Europa.
Un ritorno per inerzia tra i banchi, molte aspettative rischiano di frantumarsi
Andrea Colasio Deputato dell'Ulivo Commissione Istruzione e Cultura della Camera
L'esercito della scuola veneta si è messo in moto. Un esercito con oltre 51.000 docenti, 18.466 profili amministrativi, dai direttori e dirigenti d'istituto ai collaboratori scolastici, il tutto suddiviso tra le 743 istituzioni scolastiche presenti nel nostro territorio. A questi si aggiungono i "riservisti": il battaglione dei precari che, Tar del Lazio permettendo, attende con ansia la definizione delle graduatorie e l'assegnazione della cattedra. Un vero e proprio sistema organizzativo complesso pronto ad accogliere il mezzo milione di allievi della regione, a partire dai 40.000 delle materne per arrivare ai 165.000 delle superiori. Accanto alle certezze restano, e non pochi, i dubbi e gli interrogativi. Docenti, alunni e relative famiglie si stanno infatti chiedendo quali siano stati i mutamenti conseguenti alla riforma annunciata a giugno del 2001 dal ministro Moratti. Cosa è cambiato, oggi, nella scuola? La sola cosa certa è che la riforma dei cicli messa in cantiere dal centrosinistra, sulla quale si può sospendere il giudizio, è stata bloccata, ma non ancora abrogata; tutto il resto è oscuro.
L'anticipo, ovvero l'entrata in classe anticipata per i bambini delle materne, a due anni e mezzo, e delle elementari, a cinque anni e mezzo, è osteggiata dall'Anci, da molte sigle sindacali, da diverse associazioni di genitori, da molti pedagogisti. Per i Comuni il problema è concreto: l'anticipo significa più classi, e quindi più aule da predisporre; ma, ribattono gli enti locali, non ci sono i soldi, e comunque la questione va almeno concertata. L'anticipo è valutato negativamente da molti docenti e studiosi, per i quali il cosiddetto "precocismo" si tradurrebbe in uno slittamento delle materne verso una funzione assistenziale: ai bambini di due anni e mezzo, replica qualcuno, si devono cambiare ancora i pannolini. Per i pedagogisti, non tutti ad onor del vero, si tratta di rispettare i tempi naturali dello sviluppo dei bambini: un tempo per il gioco e le relazioni, un tempo per l'apprendimento all'interno delle istituzioni scolastiche. Su questo fronte invece della riforma avremo una fase sperimentale, di verifica: progressivamente si è ridotto però il numero delle realtà scolastiche all'interno delle quali procedere con la sperimentazione. Oggi, siamo a due Circoli per provincia, il che significa, 200 istituzioni scolastiche in tutta Italia. Ma, dicono i sindacati, per procedere ci vuole il parere dei Collegio docenti, che nessuno, dal ministero, ha sentito. Insomma nulla di chiaro.
Sul maestro prevalente alle elementari è giustamente polemica: le nostre scuole elementari sono all'avanguardia in Europa, anche grazie alla professionalità dei vari profili; con la riforma si torna indietro di molti anni. Sull'inglese sin dalla prima elementare e sull'insegnamento precoce dell'informatica non si può che essere d'accordo; il Progetto Lingue 2000 non attendeva però certo la Riforma per decollare, ed è in realtà, già da anni, patrimonio condiviso da molte istituzioni scolastiche venete.
Altro sul tappeto non c'è. Ma dov'è allora la riforma Moratti? Sia detto esplicitamente, qui non interessa far polemica, ma discutere sul destino della scuola italiana. Poiché una riforma costa e le risorse sono decrescenti, sarebbe opportuno tentare di individuare le priorità su cui concentrare le risorse disponibili. Va però almeno condiviso l'obiettivo, che dovrebbe essere quello di elevare il tasso di scolarizzazione, facendo crescere il numero dei diplomati e dei laureati su standard che ci avvicinino all'Europa, riducendo il grave fenomeno della dispersione e dell'abbandono scolastico. Si dovrebbe allora lavorare sull'elevamento dell'obbligo scolastico; andrebbe affrontato, senza barricate ideologiche, il nodo del pluralismo scolastico: il sostegno alla scuola privata non deve comportare però la destrutturazione e il degrado della scuola pubblica.
Si tratta poi di capire se l'ipotesi di creare un doppio canale, istruzione da un lato e formazione professionale dall'altro, serve a far crescere il capitale culturale globale del Paese, o se invece non si corra il rischio di avviare precocemente i ragazzi, a tredici anni, verso la formazione professionale. E sia detto per inciso, la formazione professionale, che nel nostro Veneto presenta punte di eccellenza, non è scuola di serie B, o ricettacolo per coloro che si scontrano con la dura realtà dell'insuccesso scolastico, ma dovrebbe rappresentare un'offerta formativa congruente con la scelta professionale del ragazzo. Ma lavoriamo, allora, perché questa scelta maturi consapevolmente e non consegua a forzature culturali o a una "naturale" selezione per ceto e capitale culturale delle famiglie. Il rapporto tra le istituzioni scolastiche, la cui autonomia va difesa e rafforzata da ingerenze politiche, ed il mercato del lavoro delle nostre diverse comunità locali va accresciuto: la scuola deve rispondere alle esigenze del contesto in cui opera, ma stiamo attenti alle chiusure localistiche: il nostro mercato, il nostro reale scenario culturale ed economico è, e sempre più sarà, l'Europa.
A conti fatti si è perso un altro anno; il fatto che la riforma possa essere calibrata su tempi più lunghi dovrebbe permetterci di poterne discutere più distesamente, coinvolgendo e responsabilizzando tutte le parti interessate al destino della nostra scuola. Le Istituzioni scolastiche italiane e venete non sono aziende cui praticare una cura da cavallo, con tagli dei rami secchi e licenziamento del personale; sono realtà più complesse il cui buon stato di salute e la cui funzionalità oggi, ci permetteranno, un domani, di poter giocare il nostro ruolo in Europa.