La scuola ingiusta
Il Rapporto sulla qualità nella scuola in Lombardia della prestigiosa rivista Tuttoscuola
di ERMANNO PACCAGNINI
Ci son discorsi che creano sempre un certo imbarazzo nell'affrontarli, e però, chissà perché, riguardano problemi che a distanza di oltre trent'anni si ripresentano invariati, quasi che tutta una generazione di studiosi che hanno dedicato la propria vita al tema centrale della valutazione (penso fra tutti a Benedetto Vertecchi) abbiano solo sprecato tempo e inchiostro. A questo rinviano alcuni passaggi del ricco Rapporto sulla qualità nella scuola in Lombardia della prestigiosa rivista Tuttoscuola, calibrato su 68 comuni con più di 20.000 abitanti, attento a considerare la scuola come un organismo al cui funzionamento concorrono studenti, gestione del personale, dotazioni didattiche e informatiche, interventi e politiche finanziarie virtuose degli enti locali, funzionalità di servizi ed edifici scolastici.
Ma volendosi soffermare anche sul solo lato umano, luci e ombre s'incrociano senza remissione alcuna. Detto che in Lombardia si vive una situazione sostanzialmente positiva rispetto alla media nazionale quanto a personale docente — stabile, con fortissima presenza femminile «moderatamente giovane» —, va però rilevato un consistente incremento dei giorni di assenza. Altri dati parlano invece a suo favore: perché se Sondrio e Como scivolano a fanalini di coda nella classifica mentre figurano ai primi posti negli esiti scolastici, questi ultimi non possono che essere dovuti alla capacità docente di motivare allo studio pur in situazioni strutturali deficitarie, e non certo dall'adozione della «manica larga», come ribadiscono i dati delle prove oggettive Invalsi. E proprio questi dati aprono però una voragine spettrale nel mondo della scuola. Perché se da un lato dicono che esiti di esami e scrutini collocano gli studenti lombardi addirittura sotto media nazionale, dall'altro qualcosa non torna ove si guardi ai dati Invalsi o Ocse-Pisa, che al contrario li classificano stabilmente ai primissimi posti.
Di qui almeno due gravi considerazioni. Di ingiustizia sociale, la prima, nei loro confronti, in un Paese governato dal valore legale del titolo di studio per i concorsi pubblici. E di una sostanziale mancanza di educazione alla valutazione. Non è infatti oggettivamente e culturalmente credibile che solo il 3,9 per cento dei maturandi lombardi tocchi il massimo dei voti, quando la media nazionale è del 5,7, e addirittura del 10 di quella Calabria che — pur in presenza di istituti di eccellenza — le rilevazioni Ocse-Pisa pongono invece quale «fanalino di coda». Né credo che si tratti solo di maggior severità da parte dei docenti lombardi o d'una sorta di familismo orgogliosamente regionalistico altrove: motivo per cui ritengo sì utile, ma non più che palliativo, l'incremento di prove oggettive su scala nazionale (come nel caso della terza prova della maturità). Né sarebbe corretto «difendersi» ricorrendo a un maggior lassismo. Il problema centrale è e resta uno solo: la formazione e adozione d'una corretta, equilibrata capacità, e volontà, di obiettiva valutazione. Per i docenti, oggi. Come esempio educativo per gli studenti, uomini del domani.