Alto Adige-Bert, io nelle aule della scuola che cambia pelle
Bert, io nelle aule della scuola che cambia pelle L'intervista. Con Silvano Bert, trent'anni di lavoro e idee in una raccolta Silvano Bert ha dunque analizzato gli stretti rapporti tra la scuola...
Bert, io nelle aule della scuola che cambia pelle
L'intervista. Con Silvano Bert, trent'anni di lavoro e idee in una raccolta
Silvano Bert ha dunque analizzato gli stretti rapporti tra la scuola e la città ma anche tra insegnanti e insegnamenti alla luce delle sperienze di questi ultimi decenni. Ma non mancano anche riferimenti più prossimi, sulle riforme che hanno investito la scuola non solo trentina ultimamente. Sono tutte questioni ancora aperte che entrano anche nel suo libro di cui sopra. Ma sulla riforma Moratti, il ruolo dei docenti e degli alunni, lo abbiamo intervistato. Ecco il nostro colloquio.
di Franco de Battaglia
Silvano Bert, "L'aula e la città" comprende due date: 1968-2002. Che significano?
"Che la scuola ha bisogno di riforme continue".
Non ve ne sono state abbastanza?
"Il difetto che ho visto nella scuola, nei trent'anni in cui vi ho insegnato (alle Superiori tecniche) è stato di vivere anni di di mancate riforme. Tanti progetti, nulla di fatto".
Ora invece c'è un vortice di riforme.
E creano reazioni, tensioni. L'unica vera riforma fatta nella scuola è stata la Media Unica del 1963-64. Ha aperto spazi sociali, ha spostato in avanti curiosità, lettura, cultura. E' stata la più bella legge della prima repubblica".
Ha fatto capire la dignità, la necessità di studiare?
"Ricordo quando (erano gli anni Cinquanta, la riforma era lontana) in quinta elementare il maestro ci chiese: "Chi di voi ha intenzione di proseguire gli studi"? Alzammo la mano solo in cinque.
Scese il gelo sulla classe. Mi sentii umiliato per quelli che non potevano alzare la mano".
Molti dicevano che sarebbe stata una catastrofe".
"Ci sono stati problemi e alcuni perdurano ancora. Ma non è stata una catastrofe. Tutt'altro.
Piano piano si sono trovate le energie per assestare, per progredire. Sarebbe stato necessario proseguire con le riforme, giungere ad un graduale allungamento dell'obbligo".
E invece non si trovano mai risorse sufficienti per investire nella scuola, per preparare gli insegnanti.
"La critica grossa che muovo alla riforma Moratti è di anticipare ancora la scelta fra chi lavora e chi studia".
A 14 anni.
"E invece c'è bisogno, per i ragazzi di oggi (anche per quelli d'allora, ma ancor più per quelli di oggi) di una formazione di base solida, unitaria, che si prolunghi, che si consolidi se vogliamo formare dei cittadini".
E se i ragazzi non vogliono studiare, ora che cliccano su internet e sui videogiochi? Costringendoli a studiare non si formano svogliati passivi invece di cittadini attivi?
E' un problema grosso. E' la vera sfida. Ho fatto cento volte l'esperienza di insegnare Dante, Leopardi, Storia e di dover motivare studenti non motivati.
Però ricordo, quando sono andato alle medie, ero un barbaro anch'io. I miei genitori non erano "studiati". Se non c'era la scuola non imparavo".
Quale'è la sfida allora?
"Riuscire a catturare l'attenzione (sarà un percorso anche lungo, ci saranno dei fallimenti, non dobbiamo crearci troppi sensi di colpa) e aprire nuove terre, nuovi spazi per questi ragazzi.
Ho avuto ragazzi che non sapevano parlare e hanno imparato a parlare. Con altri ho fallito.
Ma altri, alla fine del corso non potevano fare a meno del giornale, di un libro".
Far crescere tutti invece di preparare "punte"?
"Le idee creative, innovative, non vengono dalle intelligenze solitarie, ma dai colloqui, dagli scambi di vita. Per arrivare a questo bisogna che gli insegnanti ripensino un po' se stessi".
Che vuol dire? Non hanno fatto già troppa supplenza (civile, familiare, educativa) gli insegnanti?
"Vuol dire costruire un contesto scolastico che sappia assorbire i "barbari" nuovi. Vengono dalle periferie, invece che dalle campagne, dall'immigrazione, invece che dal lavoro".
All'Università si lamentano che dalle Secondarie arrivano troppi impreparati.
"Certo. All'Università arriva il 5 per cento della popolazione ed erano più preparati. Ora ci vanno in tantissimi, da tutte le scuole. E' una sfida anche per l'Università".
Gli insegnanti devono ripensare se stessi: non è ingiusto dirlo? Non sono stati gravati da troppe incombenze burocratiche, proletarizzati a cottimo, come se insegnare fosse timbrare il cartellino, con troppe riunioni inutili, "debiti" diseducativi per chi li matura (e non se ne cura) obblighi che non lascinao poi il tempo di prepararsi?
"E' vero. La scuola è uno dei settori più burocratizzati. Ma certe volte gli insegnanti arruolano nella burocrazia un tipo di lavoro che è il lavoro collegiale. Nelle elementari il lavoro di equipe funziona bene, ha una storia lunga.
Gli insegnati delle Superiori, invece, sono stati formati come monarchi assoluti nella propria aula. Una delle ragioni degli insuccessi dei ragazzi dipende anche dalla difficoltà a lavorare in gruppo, a stabilire insieme degli obiettivi, a verficarli insieme. Certo lavorare insieme è la cosa più difficile, perché la scuola è relazione".
Fra giovani e adulti?
"Anche di adulti fra loro. Per questo la scuola è un luogo di formazione, perché è di relazione. Ma le relazioni logorano. Stressano".
Questo non lo capisce neppure la Provincia.
"Eppure nonostante il loro stress gli insegnanti andrebbero valutati. Faccio io una domanda: "E' possibile valutare gli insegnanti"?.
Provo a rispondere da intervistatore: no. E meno che mai oggi.
Sono possibili note, giudizi di un preside, di un dirigente. Ma la valutazione che sta passando in tutte le professioni, più o meno agganciate e finanziate dall'ente pubblico, è in realtà una "pressione" perché il professionista si uniformi agli indirizzi politici e materiali dominanti.
Se un insegnante dice ai suoi allievi che cliccando su internet trova "polpette" di cultura già rimasticata e disimpara a fare ricerca come verrà valutato? Come un retrogado.
No. La valutazione premia i conformisti e gli ossequienti. Per i pigri e gli sfaticati (ve ne sono) bassta e occorre la segnalazione del dirigente. Se no che dirigenti sono?
"La scuola non è un'impresa e quindi va gestita con altri criteri, d'accordo. Ma il problema vero degli insegnati resta l'ingresso. Le modalità di selezione e di accesso alla cattedra.
L'equivoco di fondo, il limite di una cultura idealista, è che si continua a credere che basti conoscere una materia per insegnarla".
Nell'attesa di selezioni più rigorose ed eque, qual'è la via per unire "l'aula e la città"?
"La lingua, il linguaggio. Imparare ad ascoltare, a leggere, a parlare, a scrivere. Assumere le competenze per esprimersi.
L'aula non è un'isola, ma uno spazio con le porte aperte, perché vi entrino gli spifferi della società.
Per entrare dentro la città".