Rieccoci: gli italiani sono ignoranti
Analfabetismo di ritorno, ignoranza diffusa, difficoltà nel problem solving, bassi livelli di literacy e numeracy: ennesima fiammata d’interesse per un’emergenza che non è un’emergenza, ma un dato strutturale.
Gli italiani, e le italiane, sono ignoranti, dealfabetizzati. Non leggono, se leggono non comprendono quello che leggono, non sanno far di conto. Quelli del Sud peggio ancora che quelli del Nord.
A dirlo, attraverso dati e ricerche e analisi e comparazioni internazionali, sono varie fonti, importanti e certificate. In particolare, negli ultimi giorni, il Rapporto Censis e l’indagine sulle competenze degli adulti (Survey of Adult Skills) realizzata nell’ambito del programma Ocse sulla valutazione internazionale delle competenze degli adulti. E, in questo momento, i media ne parlano.
La notizia vera però è che non si tratta di una novità perché i dati, più o meno, sono gli stessi, da almeno un decennio. E sono dati da far tremare le vene ai polsi perché vedono la popolazione italiana (pur con significative varianti territoriali) relegata agli ultimi posti. Tullio De Mauro ha studiato e denunciato tutto questo e suggerito le vie per superarlo, indicando con precisione l’esigenza di un sistema per l’apprendimento permanente di cui lo Stato si faccia carico.
Il pensiero (soprattutto degli addetti ai lavori) va subito all’IDA, al sistema dell’Istruzione degli Adulti nel cui ambito sono stati istituiti i CPIA (DPR n. 263/2012). Ma quegli stessi addetti ai lavori sanno che stiamo parlando di una sorta di Cenerentola del Sistema Nazionale dell’Istruzione (e non sfugga che quel sistema vive una grande sofferenza).
Ma torniamo all’Istruzione Degli Adulti (IDA), che vogliamo intendere in un’accezione più ampia rispetto alla sola, pur importante, acquisizione di titoli di studio da parte delle persone che ne sono sprovviste. Tra queste persone sono stati compresi gli adulti immigrati che necessitano delle certificazioni linguistiche e di formazione civica di base per chiedere il permesso di lungo soggiorno. E, in generale, tutte le persone che avendo compiuto 16 anni di età, e a fronte di particolari deroghe, anche 15, si trovano in quelle condizioni, insomma adolescenti che hanno avuto difficoltà col sistema scolastico loro riservato che vengono promossi adulti sul campo, si potrebbe dire.
Certo il titolo di studio può essere importante, e vanno offerte le condizioni e i contesti per acquisirlo anche in età avanzata, ma è quantomeno altrettanto importante garantire alle persone adulte dei contesti in cui rafforzare e sviluppare conoscenze, acquisire competenze di cittadinanza, coltivare interessi e passioni culturali, invecchiare attivamente, riqualificarsi professionalmente e molto altro ancora. Tutto ciò, con le risorse, gli organici, l’ordinamento che ha, l’IDA non è in condizioni di garantirlo, salvo ricorrere a progetti più o meno estemporanei, ma sempre con un carattere straordinario, non sistemico.
I CPIA esistenti sono una realtà quantitativamente risibile se raffrontata al bisogno. Per non dire che andrebbero posti al centro di un’attenzione ben più grande e cogente: moltiplicati, rinnovati, resi una presenza capillare, efficace e riconosciuta in grado di interloquire autorevolmente ed efficacemente con gli altri segmenti del sistema dell’istruzione e con le realtà istituzionali e socio-economiche dei territori per dar vita a reti territoriali per l’apprendimento permanente. Reti nelle quali i CPIA dovrebbero esser posti nelle condizioni di svolgere un ruolo di regia e di garanzia delle finalità del sistema.
Ma sarebbe un errore madornale considerare i dati su numeracy e literacy come problemi da affrontare lavorando esclusivamente con le persone di età avanzata nei segmenti di istruzione, educazione, formazione loro dedicati.
Bisogna contemporaneamente, andare alla radice della questione e guardare, certo, a come, nella società odierna, cambiano l’apprendimento e le modalità di accesso, di fruizione, di scambio e di produzione nonché di elaborazione dei prodotti culturali. Nello stesso tempo però, occorre guardare alla scuola, ovvero all’unica agenzia istituzionalmente chiamata a garantire per tutti e tutte, fin dai primi anni, meglio, dai primi mesi di vita, il diritto all’istruzione. E a un’istruzione di qualità, s’intende. Senza la quale la crescente complessità del mondo non potrà che suscitare inquietudine e sgomento e ciò porterà ad affidarsi a coloro che promettono di governare tale complessità con ricette semplici, banali e perciò anche rassicuranti, nuove versioni, ancorché ipertecnologicizzate, del vecchio “ghe pensi mi”.
A questo bisognerebbe dedicare attenzione sistematica e costante, senza aspettare i prossimi rapporti annuali. Un’attenzione che si articoli in riforme, misure, interventi a sostegno e implementazione del sistema d’istruzione tutto. Politiche, insomma, di segno inclusivo, democratico, di qualificazione e sviluppo, appunto. La direzione contraria di quella che sembra andar per la maggiore e dove ci sta portando chi governa.