Le tre ipocrisie dei nostri atenei
Ovviamente servono risorse, e tante, ma servirebbe anche affrontare urgentemente alcune profonde contraddizioni – ma forse dovrei dire ipocrisie – del nostro sistema universitario.
di Dario Braga*
Il tema “università” non ha certo dominato la recente campagna elettorale. Altre priorità. Potremmo tuttavia assumere, come “ipotesi di lavoro”, che chiunque si troverà domani a governare il Paese sappia di dover puntare sul rilancio del nostro sistema formativo, a partire dall’Università, per costruire il futuro culturale e occupazionale del Paese.
Ovviamente servono risorse, e tante, ma servirebbe anche affrontare urgentemente alcune profonde contraddizioni – ma forse dovrei dire ipocrisie – del nostro sistema universitario.
La prima ipocrisia è la relazione tra libere scelte degli studenti e risposta da parte dell’università. Un sistema universitario normale non è regolato da una domanda di formazione variabile, ma da una offerta definita - in maniera bipartisan - sulla base delle esigenze e delle strategie di sviluppo del Paese. So di toccare il tasto delicato della programmazione degli accessi. Un terreno continuo di scontro in nome del diritto di ciascun cittadino di accedere alla formazione in modo libero. Ma qui sta appunto il problema: l’università non è una fisarmonica e non può espandersi e contrarsi seguendo i flussi di interessi degli studenti. Tutti ne abbiamo contezza: ci vogliono anni per creare corsi di studio e docenza e strutture didattiche adeguate e ce ne vogliono ancora di più per riportarle indietro quando la “bolla” del momento si fosse eventualmente sgonfiata.
L’impossibilità di calibrare gli accessi sulle risorse in alcune aree/sedi porta a sofferenze didattiche (aule sovraffollate, laboratori e biblioteche insufficienti), a un maggiore ricorso al precariato (professori a contratto, assegnisti e dottorandi utilizzati nella didattica ecc.) e al sovraccarico di alcuni docenti (turni d’esame, decine di tesi di laurea da leggere ecc.) a scapito della loro capacità di fare ricerca. Dovrebbe essere chiaro anche ai più ideologizzati che, in queste condizioni, “libera scelta” non significa affatto “pari opportunità di accesso allo studio”.
La seconda ipocrisia è quella del titolo di studio. L’Italia è l’unico Paese al mondo dove l’importanza “percepita” del titolo di studio, dalla laurea triennale alla magistrale e al dottorato (PhD), sembra essere inversamente proporzionale all’impegno e alla durata della formazione. Una università normale non fa credere alle famiglie e agli studenti che bastino tre anni per diventare “dottori”. Può andare bene a chi lucra sulle “vaffa-lauree” e ai festaioli per ogni occasione, ma non va bene in un Paese serio. Come si può pensare che il PhD venga riconosciuto dal mondo del lavoro come massimo gradino della formazione se la stessa istituzione universitaria – fatte le debite eccezioni – non lo valorizza?
Una terza ipocrisia è quella della durata degli studi. Ogni anno accademico comincia in autunno e termina nell’autunno dell’anno successivo, ma lo studente può sostenere esami, e anche laurearsi “in regola” sia per la laurea triennale sia per quella magistrale, anche sei mesi dopo. In questo modo 3+2 facilmente diventa eguale a 7. Risultato al quale contribuisce il fatto di poter ripetere esami enne volte rifiutando qualunque voto.
Quello che sembra sfuggire è che queste pratiche, ancorché pensate in senso liberale, si risolvono oggettivamente in un danno per gli stessi studenti, e in costi maggiori per le famiglie. Non solo questo. Affrontare i percorsi universitari senza regole, se non quelle autoimposte, non aiuta gli studenti meno brillanti, anzi, tende a emarginarli nel percorso formativo. E non avvantaggia nemmeno i più bravi perché chi si laurea “presto e bene” si trova spesso a pagare in preziosi mesi di attesa l’apertura di altri percorsi, come per, esempio, quello di accesso al dottorato.
Queste ipocrisie (non torno su quelle “concorsuali”, di cui ho già scritto in precedenza) sono tutte figlie di un’epoca di compromessi estremi e di riforme stratificate che, oggi come oggi, ingessano il sistema, dissipano risorse e creano disoccupazione intellettuale e false aspettative.
È vero, il nostro Paese soffre di un deficit spaventoso di formazione universitaria. Le statistiche ci ricordano ogni giorno che siamo tra gli ultimi Paesi in Europa. Tuttavia, per allargare il numero di laureati e garantire quel diritto alla formazione sancito dall’art. 34 della Costituzione abbiamo sì bisogno di investimenti (alloggi, mense, biblioteche, infrastrutture, docenza), ma abbiamo anche bisogno di onestà intellettuale davanti agli studenti e alle famiglie. Stiamo a vedere.
*Presidente dell’Istituto di studi superiori e direttore dell’Istituto di studi avanzati Alma Mater Studiorum University of Bologna