La ricerca scientifica dimenticata dai partiti
è sorprendente che finora la campagna elettorale in Italia non abbia posto l’accento sulla ricerca scientifica, considerata evidentemente da tutti i partiti come un argomento trascurabile
di Nicola Bellomo* e Maria Pia Abbracchio**
C aro direttore, è sorprendente che finora la campagna elettorale in Italia non abbia posto l’accento sulla ricerca scientifica, considerata evidentemente da tutti i partiti come un argomento trascurabile. Eppure investire in ricerca è una delle strade maestre per far ripartire l’economia e l’innovazione nel Paese.
Lo ha capito molto bene il presidente francese Emmanuel Macron, che dal giorno del suo insediamento ha mostrato uno spiccato interesse verso la scienza, in particolare verso gli investimenti nei settori dell’intelligenza artificiale e delle misure contro il cambiamento climatico. Lo ha capito ancora di più Angela Merkel, che grazie anche al suo retroterra da fisico ha ben chiaro che la competizione internazionale si gioca sul terreno della conoscenza. Per questo ha dichiarato di voler portare l’investimento in ricerca dal 3 al 3,5% del Prodotto interno lordo, lanciandosi all’inseguimento di Israele e Corea del Sud (4,5%), Svizzera, Giappone, Svezia e Austria (dal 3 al 3,5%).
L’Italia stagna da anni intorno ad un investimento in ricerca dell’1,2-1,3% sul Pil, in compagnia di Spagna, Paesi balcanici e dell’Est europeo, e ben staccata da Francia, Gran Bretagna e Nord Europa. Siamo quindi lontani sia dalla media del finanziamento Ue del 2%, che dalla media dei Paesi Ocse del 2,4%, e a meno della metà del valore minimo del 3% consigliato dalla Commissione europea per assicurare la crescita e la creazione di un meccanismo virtuoso di indotti positivi.
Non va meglio se consideriamo il numero dei ricercatori italiani rispetto agli altri Paesi, anche limitandoci a quelli più vicini. Con 4,9 ricercatori ogni mille lavoratori, il nostro Paese ne ha poco meno della metà della media dei Paesi dell’Ocse (8,2). Siamo anche gli ultimi in Europa riguardo alla percentuale di laureati tra i giovani fra i 25 e i 34 anni: solo il 24%.
È ora quindi di prendere sul serio il nostro deficit nel campo della ricerca e dell’istruzione superiore e farne un punto qualificante nei programmi elettorali dei partiti. Negli ultimi mesi, un segnale incoraggiante è arrivato dal finanziamento alla ricerca di base con il bando Prin (Progetti di Ricerca di Interesse Nazionale) del Miur, che per la prima volta si è attestato sui 400 milioni di euro, seguito dal finanziamento dei dipartimenti universitari valutati come più meritevoli. Ma si tratta ancora di interventi estemporanei che vanno resi costanti e sistematici, inseriti in una programmazione nazionale che porti molto rapidamente l’Italia a investire in ricerca e sviluppo almeno il 2-2,5% del Pil, creando anche le opportune facilitazioni ai privati per aumentare il loro contributo, in Italia particolarmente basso.
Tutti i centri di ricerca devono prima di tutto poter contare su una dotazione adeguata per sviluppare le loro linee di ricerca, che spesso riescono a essere ancora competitive in ambito internazionale grazie all’impegno quasi volontario dei giovani che ancora credono nel loro lavoro e che, peraltro, vengono pagati circa la metà dei loro colleghi all’estero.
Garantita la ricerca diffusa, bisogna poi aumentare il finanziamento competitivo — quindi attraverso bandi — che nel nostro Paese rappresenta ancora una percentuale infima rispetto al finanziamento ordinario alle Università e agli Enti di ricerca, che a malapena paga gli stipendi del personale.
Anche per questo, da anni il Gruppo 2003 per la ricerca invoca la creazione di una Agenzia nazionale che valuti in modo indipendente la qualità dei progetti e li finanzi di conseguenza. Non c’è Paese sviluppato che non abbia una o più agenzie di questo tipo, capaci di far crescere sempre più la competitività internazionale dei loro gruppi di ricerca.
Solo potenziando istruzione universitaria, scienza e tecnologia, e promuovendo il trasferimento delle scoperte di base alle aziende del Paese, l’Italia può ambire a mantenere il suo status di Paese sviluppato e giocare un ruolo nella nuova «economia della conoscenza» che sta plasmando il mondo di domani.
*Presidente di Gruppo 2003 per la ricerca
**Vicepresidente