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L'Imt, la super scuola aperta al mondo obbligata a rifiutare i docenti stranieri

Lucca, l'inglese è la lingua base. Ma le regole impongono prof italiani

13/06/2012
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Corriere della sera

Perfino la Grecia, rovesciando la vanteria del Duce, ci spezza le reni. Con 3,3 stranieri ogni 100 iscritti contro i 4,1 degli atenei ellenici, l'università italiana è sempre più in basso nelle classifiche mondiali. E dove gli studenti accorrono, come all'Imt di Lucca, mancano i docenti forestieri: porte aperte ai terzini, ai centravanti e ai portieri ma non ai professori. Porte sbarrate.
La tabella elaborata su dati Ocse e presentata giorni fa dalla Fondazione Moressa a un convegno a Ca' Foscari sull'attrattività dei nostri atenei è sconfortante. In coda a una classifica che vede svettare la Nuova Zelanda (26,5% di iscritti stranieri alle università locali), l'Australia (24,4%), la Svizzera (21,2%), la Gran Bretagna (20,7%), l'Austria (19,4%) e giù giù Canada, Francia, Belgio e tutti gli altri noi siamo davanti solo a Slovacchia, Corea, Polonia e Turchia. E con quell'umiliante percentuale del 3,3 siamo a poco più di un terzo della media Ocse (8,7) e a meno della metà di quella dell'Europa, che sta al 7,7%.
Sono 3 milioni e 700 mila, in giro per il mondo, i ragazzi che frequentano l'università in un paese che non è il loro. Di questi, un milione e 200 mila studiano nei paesi dell'Europa. Mezzo milione circa in Gran Bretagna, 64.704 in Italia. Vale a dire che solo uno su 57 dei ragazzi che vanno all'estero a laurearsi sceglie il paese dell'Alma Mater Studiorum di Bologna, la più antica università occidentale, e dell'ateneo di Padova dove insegnarono Galileo Galilei o Nicolò Copernico.
La tabella sui dottorandi dell'ultimo Annuario Scienza e Società non è meno impietosa: la Nuova Zelanda svetta ancora col 49,8% davanti a Regno Unito (47,5%), Svizzera (47,0%), Francia (40,9%) e noi stiamo all'8,2%, meno della metà della media Ue (17,9) e dietro anche Portogallo, Cile, Repubblica Ceca, Finlandia e Slovenia. Umiliante.
Ma non basta. Stando all'indagine della Fondazione Moressa, gli stranieri iscritti alle nostre università (che spendono complessivamente in tasse, libri, vitto e alloggio 711,5 milioni di euro e appartengono a 125 nazionalità) vengono soprattutto da Albania (21,5%), Cina (9,6%) e Romania (9%). Per capirci, sono spessissimo figli di immigrati che non hanno scelto affatto la nostra università: se la sono trovata sotto casa. Altrimenti la nostra percentuale sarebbe ancora più miserabile.
Potevamo aspettarci qualcosa di diverso se fino al 2007, come denunciò il professor Alessandro Figà Talamanca, «uno studente straniero che avesse voluto iscriversi alla "Sapienza" e per farlo si fosse collegato al nostro sito internet, avrebbe trovato una procedura tutta in italiano e la prima domanda era: "Qual è il tuo codice fiscale?"».
Certo, ci sono eccezioni. Ma sono nicchie. La più vistosa, numeri alla mano, è la Imt di Lucca dove sono in inglese non solo i moduli di accesso e le lezioni ma perfino i documenti contabili. E dove si riafferma un antico adagio non britannico ma veneto: «Bruta in fassa, bela in piassa». Mai giudicare una creatura alla nascita: può essere brutta in fasce ma bella da grande.
Era nato male, l'Institute Markets Technologies. Pareva un capriccio del lucchese Marcello Pera quando era presidente del Senato e contava sull'appoggio dell'allora ministro Letizia Moratti: ma come, un'altra scuola superiore a mezz'ora di macchina dalla Normale e dal Sant'Anna di Pisa? E intorno al suo ruolo, più internazionale o più locale, si scatenò l'iradiddio non solo tra destra e sinistra ma dentro la stessa Forza Italia col sindaco berlusconiano scatenato contro il professore popperiano. Obiettivo dei diffidenti: «Non deve diventare il giocattolo di Pera».
Tutto superato, spiega il direttore Fabio Pamolli, che coi suoi 47 anni è uno dei più giovani rettori italiani. Rapporti ottimi con tutti, elogi sulla stampa internazionale da Le Monde al Financial Times, città orgogliosa del fiore all'occhiello al punto che, grazie alla generosità dei finanziatori un po' pubblici un po' privati (in particolare la Fondazione Lucchese per l'Alta Formazione e la Ricerca e la Fondazione Cassa di Risparmio di Lucca), l'Istituto potrà godere fra un anno (i lavori sono quasi finiti) di quello che sarà uno dei più bei «campus» del pianeta, il complesso monumentale dell'ex convento San Francesco.
Bene: se nelle altre università nostrane gli stranieri sono rari come gli urogalli, qui c'è un filtro spietato per arginare le richieste. Le domande di iscrizione, moltiplicatesi per sette in sette anni, sono state per l'anno in corso, dove erano in palio 48 posti da allievo, 1439. Nell'84% dei casi firmate da stranieri: 155 europei, 14 cinesi, 73 indiani, 143 mediorientali, 451 asiatici di vari paesi, 309 africani… Di più: la selezione è stata così dura che quelli accettati alla fine sono stati soltanto 30, per metà italiani (16) e per metà stranieri.
Quanto ai ricercatori, quelli assunti all'Imt sono 26, dei quali quindici italiani (in buona parte con specializzazione all'estero) e nove no: quattro americani, due greci, uno spagnolo, un tedesco-uruguayano, un cinese di Taiwan. Per altre quattro posizioni da ricercatore per il 2011/2012, le domande arrivate sono state 360: 127 candidati avevano conseguito il titolo Ph.D. in Italia, 117 in un altro paese europeo, 74 negli Usa, 42 in varie università del resto del pianeta.
Fino a qui, apertura totale. I guai cominciano con i docenti. Perché sì, certo, l'Imt ha scelto l'inglese come lingua base, invita a far lezione più ospiti stranieri possibile, rastrella sul mercato (adottando le più rigide politiche di «scouting» meritocratico) il meglio del meglio delle intelligenze, ma su otto docenti di ruolo (più il direttore: nove) otto sono italiani. Alcuni presi all'estero, come l'archeologa Maria Luisa Catoni strappata a Berlino o l'economista Andrea Vindigni convinto a rientrare da Princeton. Ma italiani.
Come la mettiamo? Vale anche qui quanto denunciato dall'International Herald Tribune, cioè che «guidate da una élite di vecchi professori le Torri d'avorio dell'università sono difese come Fort Knox, anche se non custodiscono tesori»? Purtroppo sì: per quanto una scuola come l'Imt possa essere spalancata sul mondo e avere docenti molto più giovani della media, le regole autarchiche e protezioniste impongono di assumere (salvo rare eccezioni fatte pesare come fossero generose concessioni e non bisogno di ossigeno culturale) docenti italiani.
Uno studio dell'economista Pantelis Kalaitzidakis dice che nei duecento migliori dipartimenti economici del mondo (in testa, ovvio, c'è Harvard) i docenti stranieri sono in media uno su quattro. Tra cui molti italiani, che sono addirittura uno su sei all'Università del Minnesota. Sono stranieri il 64% dei docenti a Singapore, il 50% in Messico, il 38 in Australia, il 36 in Cina e in Canada. In coda, noi; con un «immigrato» (e quante grane con la burocrazia!) ogni 100 professori. Uno!
C'è chi dirà: con tanti disoccupati in giro, bisogna ben difendere i nostri laureati! Il guaio è che, a quel punto, anche per sfuggire alle umiliazioni salariali, i migliori se ne vanno. Come se ne vanno i «piccoli geni» che escono dal Collegio del Mondo Unito dell'Adriatico di Duino e sono contesi a suon di borse di studio dai migliori atenei del pianeta o i ricercatori, se non hanno fondi per lavorare, che escono dall'Imt di Lucca. E non bastano a trattenerli il sole, la Torre di Pisa, il parmigiano o ‘a pummarola…
Gian Antonio Stella
 


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