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Digitale a scuola, la vera urgenza è la formazione dei docenti

Affermazioni contrastanti tra ministri che si succedono, ricerche internazionali sulla resistenza alla digitalizzazione scolastica, scandali sull’abuso dei dati: bisogna fare chiarezza e soprattutto partire dalla riflessione sulla tecnologia

18/12/2019
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Corriere della sera

di Marco Gui, professore associato Sociologia dei media, università Milano Bicocca

Chi avesse seguito in questi ultimi mesi le notizie della stampa che riguardano la digitalizzazione della scuola ne avrebbe tratto un senso di grande disorientamento. Il Corriere, riportando la sintesi dei risultati dell’evento “Stati Generali della Scuola digitale” del 29 novembre scorso, titolava “Digitale a scuola, si fa marcia indietro: «Troppa tecnologia»”. Solo pochi giorni dopo, Giovanni Biondi, presidente dell’INDIRE, dichiarava: «Un po’ mi viene da ridere quando qualcuno mette ancora sotto accusa i telefonini […] ormai è accertato che si debbano cambiare tempi spazi e metodi delle lezioni per soddisfare le nuove esigenze della società». E, sempre a proposito dello smartphone, le dichiarazioni degli ultimi tre ministri dell’istruzione a proposito lasciano ancora più disorientati, se messe in fila. «È uno strumento che facilita l’apprendimento, una straordinaria opportunità che deve essere governata» (Fedeli, 12 settembre 2017) . «Sugli smartphone guardiamo con attenzione al divieto della Francia» (Bussetti, 11 giugno 2018). «L’utilizzo dei device per quanto riguarda la didattica è uno strumento fondamentale e quindi sono a favore del loro uso ma soprattutto ho fiducia nei nostri studenti» (Bussetti, 25 gennaio 2019). «È come un’arma in tasca […] È come avere una pistola e non esserne consapevoli» (Fioramonti, 9 dicembre 2019).

Al netto delle estremizzazioni, messaggi così decisi e polarizzati sono diventati sempre più frequenti negli ultimi mesi. Il motivo è l’intersecarsi di due narrazioni sulla tecnologia scolastica. Se fino a poco tempo fa era dominante e indiscusso un discorso tecno-ottimista, che ha informato le politiche pubbliche soprattutto dagli anni 2000, da qualche anno a questa parte ha preso fiato anche il racconto degli effetti collaterali della vita permanentemente connessa. Dallo scandalo di Cambridge Analytica (iniziato nei primi mesi del 2018) qualcosa è cambiato nel nostro sguardo sugli ambienti digitali, mentre i giornali sempre più spesso riportano casi di resistenza alla digitalizzazione scolastica in varie parti del mondo. Lo scontro tra la precedente – e ancora molto radicata nella scuola – visione tecnottimista e questa nuova ondata di attenzione alle problematiche emergenti del digitale, ha avuto l’effetto di una frammentazione disordinata di messaggi, che fatica a trovare un punto di incontro equilibrato. Quest’ultimo è, però, indispensabile se vogliamo ricominciare a pianificare delle politiche pubbliche sul tema.

In che direzione dovremmo andare? Avendo da poco pubblicato un libro che affronta proprio questi problemi («Il digitale a scuola. Rivoluzione o abbaglio?», il Mulino), voglio qui sintetizzare alcuni dei risultati di quel lavoro di ricerca, nonché della letteratura scientifica internazionale con cui esso si confronta.
1-L’integrazione delle tecnologie digitali nella didattica non porta di per sé a miglioramenti nelle performance scolastiche. Questo dato emerge chiaramente dalla rassegna della letteratura internazionale. L’introduzione sistematica di LIM, tablet o connessioni wireless nelle classi italiane, come in quelle degli altri paesi del mondo, non ha incrementato l’apprendimento degli studenti. Questo aumenta invece – in situazioni sperimentali - quando la tecnologia è utilizzata per supportare delle soluzioni metodologiche più efficaci. È emersa anche la grande utilità di alcune tecnologie per la disabilità e i bisogni educativi speciali. La letteratura dice che in alcune condizioni l’impatto delle tecnologie può diventare, invece, addirittura negativo.

2-L’urgenza di intervento della scuola rispetto alla digitalizzazione non è la didattica con le tecnologie ma lo sviluppo di un uso consapevole dei media. Le urgenze evidenziate dalla ricerca internazionale sull’uso delle tecnologie digitali da parte degli adolescenti sono quelle del sovra-utilizzo degli schermi, dell’incapacità di valutare correttamente le informazioni, del cyberbullismo, della gestione acritica della propria identità digitale. Su questi temi è urgente che gli insegnanti siano formati per offrire educazione all’uso dei media. Tuttavia, negli ultimi decenni, le politiche pubbliche hanno sostenuto quasi esclusivamente introduzioni tecnologiche hardware e software, oltre che formazione sui singoli strumenti. L’educazione ai media è stata pesantemente sotto-finanziata rispetto all’urgenza con cui si presenta. Tanto per capirci, l’urgenza non è usare i social per fare didattica ma discutere a scuola sulle dinamiche che si sviluppano al loro interno, sul modello di business delle imprese che li gestiscono, sulle problematiche e opportunità che presentano. Scendendo più nel dettaglio a proposito dei device mobili su cui si concentra il grosso dell’attenzione, possono essere dette con una certa sicurezza anche le due cose seguenti.

3- Lo smartphone non è uno strumento adatto a essere utilizzato con continuità nella didattica scolastica. Le ragioni sono numerose: il potenziale distrattivo, l’iperstimolazione cognitiva che comporta, le ricadute della retroilluminazione sulla vista, le sue ridotte dimensioni e la postura che si assume quando lo si usa. Non c’è convergenza sul fatto che l’introduzione dello smartphone come supporto alla didattica migliori le performance scolastiche, mentre sono numerose le evidenze sui suoi effetti collaterali. È chiaro, però, che un utilizzo dello smartphone in progetti di educazione all’uso critico dei media e in occasione di progetti didattici specifici e ben delimitati può risultare opportuno. In quest’ultimo caso, però, la scuola deve aver riflettuto prima sulle implicazioni tecniche, organizzative e giuridiche di questo utilizzo, che spesso sono sottovalutate.

4- La lettura su carta è tuttora superiore alla lettura su schermo quando si affrontino contenuti impegnativi dal punto di vista cognitivo e quando ci si voglia immergere emotivamente in una narrazione. Sono molte le ragioni che possono spiegare i risultati convergenti della ricerca su questo punto: minori distrazioni, minori risorse spese nella gestione visiva del testo (si pensi allo scrolling della pagina negli schermi), differenze nella postura e nei contesti di fruizione. Ciò non significa che in futuro non potremo avere tecnologie più reader-friendly. Oggi, però, gli schermi di smartphone e tablet non sono adatti alla lettura in profondità.

Cosa si può dire, in definitiva, a quel lettore che si fosse trovato frastornato e disorientato dalle molte opinioni divergenti e polarizzanti sulla digitalizzazione della scuola? In primo luogo, che le politiche pubbliche hanno sopravvalutato i benefici didattici che sarebbero derivati dall’introduzione della tecnologia nel sistema scolastico. Benefici di questo tipo vanno certamente ricercati in futuro, anche se con maggiore cautela e serietà valutativa e, soprattutto, senza quel carattere di «urgenza» che ha caratterizzato la retorica della corsa all’innovazione tecnologica. In secondo luogo, si può dire che non bisogna neppure fare marcia indietro rispetto all’innovazione tecnologica nell’educazione. Piuttosto bisogna riorientare la macchina in una direzione parzialmente diversa: affiancare al mero uso diretto delle tecnologie nella didattica la riflessione sulle tecnologie stesse. Prima ancora di formare studenti che studino con le tecnologie, abbiamo il dovere di preparare studenti che siano riflessivi e critici sulle tecnologie stesse, che le sappiano utilizzare in modo consapevole nella vita quotidiana e che un domani possano partecipare con competenze sufficienti anche a modificarle e a regolamentarne. Si attendono con urgenza politiche che prevedano una seria (e valutata) formazione degli insegnanti su questi temi, sia in entrata che in servizio.


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