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Messaggero: Università, l’Italia superata anche da Corea e Taiwan

Nella classifica mondiale Harvard al top, Cambridge è seconda. Il primo ateneo italiano è Bologna, 174° posto

08/10/2009
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Il Messaggero

di ANNA MARIA SERSALE

ROMA - Tra le prime cento università del mondo non ce n’è una italiana. Nella classifica internazionale del Times per trovare un ateneo del Belpaese bisogna scorrere la lista scendendo fino al 174mo posto! E ci è andata bene, perché l’Alma Mater di Bologna, l’unica italiana nella fascia tra cento e duecento, è salita in graduatoria: ha guadagnato otto posti lasciando il 192mo. In testa al ranking internazionale? C’è l’Harvard university, Stati Uniti. Seguono l’ateneo britannico di Cambridge e al terzo posto Yale, altra università americana. Il quarto in classifica è un prestigioso college londinese, l’Ucl, seguito dall’università di Oxford che si conferma al quinto posto. D’accordo, se la palma d’oro va a questi calibri da novanta si può dire che non c’è da stupirsi. Ma leggendo la lista cadono le braccia quando si scopre che le università italiane sono state superate anche dall’ateneo di Singapore, 30mo posto, e da quello di Seoul, in Corea, 47mo posto. Ci hanno sorpassato anche la university of Adelaide dell’Australia, che si trova all’81mo posto, la Nagoya del Giappone, 92mo, e Taiwan, 95mo posto. Una debacle. L’ennesima stroncatura per le università italiane. Ma continuiamo ad anticipare i contenuti, della classifica del Times Higher Education che verrà pubblicata oggi, classifica messa a punto da QS Intelligence Unit (www.topuniversities.com).
Dopo i primi scaglioni, al 205mo posto, troviamo la Sapienza, che è stazionaria: ha infatti mantenuto la collocazione dell’anno scorso. Ma la Sapienza può vantare una perla: si piazza al 25mo posto nel mondo per le migliori facoltà in Scienze naturali (biologia, fisica e chimica). E la Bocconi, come si colloca? L’ateneo milanese, che non è generalista, ha chiesto di non essere inserito nel ranking mondiale ma di essere valutato nella propria area specialistica. E ha ottenuto un 68mo posto in Scienze sociali ed economiche, in una classifica a parte. Le altre università italiane sono assenti: non appaiono sulla scena delle prime duecento.
Che cosa accade? Perché siamo relegati in fondo alle classifiche? Luigi Frati, rettore della Sapienza, la più grande università d’Italia, risponde con un dato agghiacciante: «Stiamo in fondo alla lista perché non abbiamo fondi adeguati per la ricerca. Il bilancio della sola università di Harvard è il doppio di quello che lo Stato italiano stanzia per l’intero sistema universitario del nostro Paese. L’Italia ha la metà dei fondi della media europea, mettendo nel conto anche Romania e Bulgaria. Senza soldi non si fa ricerca e non si va da nessuna parte! Il governo ha promesso di ridurre i tagli sul 2010, se non arriveranno i fondi, 450 milioni per l’intero sistema, sono pronto a chiedere il commissariamento economico e finanziario della Sapienza. Comunque, nonostante tutto, delle volte riusciamo a essere i migliori con aree di vera eccellenza». Frati, però, mette in discussione i criteri del Times: «Il 50% dei giudizi dipende dalle opinioni, ossia da quello che pensano di te i revisori che fanno la lista, l’altro 50 da quanti soldi hai e noi che ne abbiamo così pochi siamo penalizzati».
Ma le patologie delle nostre università non sono solo legate alla mancanza di fondi. Il sistema dei concorsi è malato. I bandi sono una farsa, tagliati su misura per chi è destinato a vincere. Per andare in cattedra da noi si consumano guerre senza esclusione di colpi. Troppe carriere lampo per figli, rampolli e fidanzate. Troppi sprechi e distorsioni. Il dissesto contribuisce alla fuga dei cervelli: ne emigrano 30mila, ne importiamo poche migliaia. Questa fuga costa all’Italia 8 miliardi di euro l’anno. Ed è fallito il piano di rientro. Corea, India, Cina e Giappone ci hanno superato. Abbiamo meno laureati del Cile. I professori sono vecchi, solo l’8% degli associati e l’1% degli ordinari hanno meno di 40 anni. Un altro triste primato: abbiamo 40 corsi universitari con un solo immatricolato, 767 con dieci o meno immatricolati e 1.260 con meno di 15. Se non sono sprechi questi. E poi l’indecente localismo delle carriere, si passa da dottorando a ricercatore, associato, ordinario senza spostarsi di un metro. Colpa dello strapotere delle lobby.
Intanto, i Paesi asiatici corrono come locomotive impazzite. Combattono la crisi a suon di finanziamenti per la ricerca. «E’ vero in Italia siamo indietro - ammette il rettore di Tor Vergata, Renato Lauro - l’Università, da decenni, è stata lasciata a se stessa dai governi di ogni colore politico. Inoltre il sistema di reclutamento non è basato sul merito, e poi l’assenza di meccanismi premiali, zero controlli e zero valutazione. Ci sono punte di eccellenza ma solo per la buona volontà e l’impegno dei singoli che amano la ricerca e la didattica. E’ estremamente difficile reperire finanziamenti, così anche i migliori entusiasmi si spengono».
Pier Ugo Calzolari, rettore dell’Alma Mater di Bologna, con il suo ateneo si salva un minimo l’onore accademico. «Già, di questo sono contento, ma per quanto? Quanto resisteremo? Lo chiedo considerando i tagli che incombono, faccio solo una considerazione: i fondi pro capite destinati agli studenti del Massachusetts, ma anche di Berna o di altre università, sono 4-5 volte maggiori di quelli che abbiamo noi. Sì, il governo parla dei soldi che ci darà con le entrate delle scudo fiscale, ma quando? Tante università sono alla disperazione. Certo, ci sono storture che vanno sanate. Alma Mater, intanto, ha riorganizzato la spesa e operato risparmi vigorosi, ma duri, con una riduzione della ricerca. Anche gli altri lo stanno facendo».


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