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La Stampa L'utile non serve a niente

La riforma dei licei

13/06/2009
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Antonio Scurati
Il giorno della fine non ti servirà l’inglese, canta il sublime Battiato. E ha ragione: messi al cospetto delle cose ultime, o delle cose prime, non ci soccorre la lingua degli affari.
Il verbo straniero delle transazioni commerciali e delle transizioni globali; semmai, ci potrebbe esser d’aiuto la lingua atavica dei padri. O, forse, la lingua arcana di antichi saperi perduti. È vero: il giorno della fine non ti servirà l’inglese. Ma tutti gli altri giorni sì.
Lo scriviamo perché del regolamento che ridisegna l’assetto dei Licei, approvato ieri mattina, colpisce soprattutto l’introduzione, all’ultimo anno, di un insegnamento di disciplina in lingua straniera. Al di là del suo velleitarismo - come faranno gli studenti ad imparare la storia o la matematica in inglese se gli insegnanti non sono in grado di insegnarla? - il provvedimento sembra riproporre un lacerante dilemma che grava da tempo sulla scuola occidentale e, soprattutto, italiana: a che serve? O meglio: deve servire a qualcosa?
Chiunque sia stato insegnante negli ultimi trent’anni, cioè da quando è cominciata la precipitosa destabilizzazione della cultura e, con essa, il crollo di tutte le tradizionali istituzioni del sapere, si sarà trovato infinite volte a chiedersi: ma che senso ha tutto questo? Accasciato dietro la cattedra nella postura molle della sconfitta, lo sconfortato professore si sarà posto la domanda letale: che ci sto a fare qui? E se la sarà posta con l’assoluta certezza che la voce del suo sconforto si stava prolungando, in quel preciso istante, nella mente dei suoi trenta studenti, i quali gli facevano eco all’unisono protestando: a che serve tutto questo?! Insomma, una sorta di mesmerismo intellettuale del senso d’inutilità collettivo. Questo è stata, troppo spesso e troppo a lungo, la scuola da quando l’avvento della società della comunicazione ha segnato l’eclissi del sistema professionale fondato sul principio in base al quale la classe dirigente doveva essere formata secondo i metodi della razionalità scientifica e umanistica.
Sì, perché questo è il punto: il dilemma tra scuola dell’utile e scuola della libera conoscenza è oggi un falso dilemma. I paladini di quest’ultima hanno sempre sostenuto che proprio nel suo sottrarsi all’utilità immediata risiedeva il grande pregio dell’istruzione scolastica. Anni formidabili quelli della formazione dell’uomo e del cittadino proprio perché sottratti al giogo di una razionalità strumentale di breve periodo e di corto respiro! Quale migliore iniziazione alla vita della conoscenza pura che è premio a se stessa? Dall’altra parte si rispondeva che avrebbe «preparato alla vita» soltanto una scuola che avesse seguito la stella polare dell’utilità dei saperi, che avesse formato negli individui conoscenze atte a inserire nella società introducendo nel mondo del lavoro.
Entrambe queste retoriche, pur conservando un diverso grado di nobiltà, rischiano oggi di ritrovarsi vuote. Come ci hanno insegnato Boltanski e Chiapello, il «terzo spirito del capitalismo», a partire dagli anni ‘80 decostruisce il mondo del lavoro e delle categorie socio professionali. La rete diventa il paradigma su cui si regge il «capitalismo connessionista». In esso, l’arte della mediazione diventa il principio superiore secondo il quale sono giudicate le persone, le azioni, le cose. Gli incontri, le occasioni, i contatti si moltiplicano, le competenze s’indeboliscono, le identità sfumano, i confini tra attività pubbliche e private, tra vita professionale e tempo libero saltano. Tutto, o quasi tutto, viene risucchiato in un flusso di comunicazione perpetua nel quale nulla riesce più a stabilizzarsi, accumularsi, prendere forma di opera o di realizzazione. Si lavora a progetto, si vive di occasioni, si naviga a vista. La nozione di capitale sociale, cioè l’insieme delle relazioni di cui uno dispone, diventa più importante di quella di capitale umano, cioè della preparazione professionale. Nelle reti sociali, le interrelazioni tra gli attori diventano primarie, i loro attributi individuali secondari. Ciò che conta nel mondo del lavoro «smontato» è l’interesse, nel senso etimologico di «essere tra», al di là di ogni distinzione di vantaggio e svantaggio, di utile e inutile.
È questo, al suo meglio, un mondo di piccoli imprenditori di se stessi, di bricoleur della vita associata; al suo peggio, un mondo di «amici di amici», di profittatori e magliari; al suo meglio, è il mondo veloce e flessibile della New Economy, al suo peggio il disastro economico globale dell’ottobre 2008. È, in ogni caso, proprio questo nuovo capitalismo che ha messo in crisi l’ordinamento tecnico-professionale della società e rigettato il rigore della formazione su cui si fondava. Non ci raccontiamo, dunque, per favore, la favola dei saperi applicati. I nostri studenti lo sanno istintivamente: non c’è nessuna razionalità dell’utile all’orizzonte della scuola odierna. Quando tutto, o quasi tutto, si scioglie nell’acido dell’irrealtà comunicazionale - vi scorra la chiacchiera da talk show, la propaganda politica, la suggestione pubblicitaria o i flussi di capitale finanziario - è l’utile a diventare inutile.


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