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Il disastro del successo formativo garantito

Giorgio Israel

28/08/2009
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IL GRAVE fenomeno di impreparazione degli studenti che accedono all’università denunciato da Il Messaggero è noto da anni al mondo universitario, che assiste con sconcerto a un progressivo degrado di cui è, sia pure in misura minore, corresponsabile, per la mediocrità dei processi di formazione degli insegnanti. Si tratta tuttavia di un fenomeno non soltanto italiano che coinvolge tutto il sistema europeo dell’istruzione. È assurdo dire che l’Italia è il fanalino di coda perché nella fascia di età 25-34 anni abbiamo soltanto 15 laureati contro i 38 della Francia e i 31 del Regno Unito. Se mai questo potrebbe essere il segnale che il sistema italiano si difende dal degrado meglio di altri, visto che basterebbe promuovere tutti per essere il fanale di testa... È questo un uso fuorviante dei dati statistici oppure l’ennesimo prezzo alla sciagurata ideologia del “successo formativo garantito”?
Sono numerose le prove del carattere europeo del disastro. Qualche anno fa il matematico Laurent Lafforgue (medaglia Fields, l’equivalente del Nobel per la matematica) fu costretto a dimettersi dal Consiglio Superiore per l’Educazione francese per aver denunciato con forza il degrado dell’insegnamento ed aver deplorato che i rimedi fossero messi in mano a quegli “esperti” scolastici, burocrati e valutatori le cui teorie e pratiche educative erano all’origine del fenomeno. Affermò che era come se un Comitato per i diritti dell’uomo si fosse affidato ai consigli dei khmer rossi. La vicenda non finì così, perché molte altre personalità si sono unite alla battaglia di Lafforgue. Per esempio, la docente dell’École Polytechnique, Catherine Krafft, ha reso nota una ricerca sugli studenti di fisica in termini che ricalcano esattamente la descrizione della nostra situazione: “ortografia difettosa, vocabolario povero e mal impiegato, grammatica quasi ignorata, espressione confusa e caotica, frasi ridondanti ma vuote di contenuto, stile oscuro e pesante, incapacità di decifrare i testi, di capire, di apprezzare”. Un appello per la rifondazione della scuola ha chiesto al presidente Sarkozy un radicale intervento di fronte alla “malattia” della scuola che si manifesta non soltanto nei fenomeni descritti dalla Krafft, ma nella “quasi totale sparizione del ragionamento matematico nelle scuole” (stiamo parlando della Francia, una delle potenze mondiali della matematica!) e nella sparizione “dei riferimenti cronologici e geografici essenziali”, ovvero nella distruzione della storia e della geografia.
Sono fenomeni facilmente constatabili nella nostra scuola, in particolare nella primaria: dal cattivo insegnamento della matematica spesso dissolto in fumose chiacchiere sulla logica e la teoria degli insiemi o, per converso, sulla “matematica pratica” alla sostituzione delle conoscenze di storia e geografia con la costruzione delle “proprie” storie e geografie. A ben vedere, la “frasaccia” sui khmer rossi che costrinse Lafforgue alle dimissioni è assai meno campata in aria di quanto sembri. Quando leggiamo nell’articolo di un ispettore generale francese, Roger-François Gauthier, l’invito a una “lotta militante” (testuale) che in una decina d’anni dovrebbe mandare in soffitta l’istruzione basata sulle conoscenze e le discipline per sostituirla con una fumosa scuola olistica mirante alle “competenze”, viene da chiedersi cosa spinge un funzionario pubblico a tanta arroganza ideologica. In Inghilterra, l’ex direttore dell’Office for Standards in Education ha proposto una riforma delle elementari che riduce le materie a cinque, eliminando quasi del tutto storia e geografia a profitto dello “studio” di blog, di podcast, Wikipedia, Twitter e Facebook e dei correttori ortografici Microsoft al posto della grammatica. Un autentico delirio volto a creare una legione di analfabeti, ignari della storia da cui vengono e del contesto in cui vivono e privi di principi etici. Dove traggono queste persone l’audacia di proporre la distruzione (anziché la riforma, come è giusto, ma con saggezza e prudenza) di secoli di istruzione da cui sono derivati risultati culturali straordinari? È l’alleanza tra un ceto di “esperti” e burocrati e alcune scuole di pedagogia e didattica attorno a una serie di slogan ripetuti pappagallescamente: meglio una testa ben fatta che una testa piena, primato della metodologia sui contenuti, valorizzare le competenze rispetto alle conoscenze, visione “olistica” della cultura e dissoluzione della divisione disciplinare, garanzia del successo formativo, autoapprendimento, e via dicendo.
Tutto ciò sarebbe buffo se non fosse pericoloso. Difatti, la prima critica del nozionismo e cioè che è più importante saper ragionare che non accumulare nozioni l’ha formulata Socrate, e non il profeta della nuova istruzione Edgar Morin. Soltanto che la pedagogia intelligente è quella che costruisce il saper ragionare sul materiale vivo e concreto della conoscenza e non mediante la trasmissione di precetti astratti di metodologia pura (la “scienza dei nullatenenti”, come la definiva Lucio Colletti). Le due cose debbono andare strettamente insieme, pena lo sbilanciamento verso due estremizzazioni entrambe perniciose nozionismo e vacua metodologia ed ora siamo sbilanciati disastrosamente verso il secondo polo. È assurdo tormentare i bambini delle elementari con gli “indicatori spaziali e temporali” anziché costruire la capacità di dominare lo spazio e il tempo mediante l’acquisizione critica di conoscenze geografiche e storiche. Così come è pura demagogia culturale parlare di “complessità” (una nozione che neppure gli scienziati sanno definire in modo univoco) quando non si ha neppure un’idea delle teorie fisiche “semplici”. Non è possibile contrapporre, e neppure distinguere nettamente, “conoscenze” e “competenze”: del resto, lo sanno bene quegli stessi pedagogisti ed “esperti” che, mentre straparlano di “misurazione delle competenze”, ammettono nei loro congressi che una definizione accettabile di questa nozione è impossibile.
Come Lafforgue e tante menti libere non possiamo accettare passivamente certi slogan il cui fallimento è peraltro testimoniato dai fatti soltanto perché sono divenuti il mantra di certi ambienti burocratici comunitari. Non siamo in Europa per mandare i cervelli all’ammasso, ma per valorizzare le migliori tradizioni della nostra cultura.
La ricostruzione di una scuola degna di questo nome richiede un grande lavoro ideale e culturale. Per avviarlo non è possibile aspettare una revisione adeguata delle normative e dei programmi. Occorre che innanzitutto si manifesti l’impegno degli attori principali del sistema dell’istruzione, ovvero degli insegnanti. Occorre che gli insegnanti e i dirigenti scolastici, per quanto e per tanti versi umiliati, ritrovino il senso della loro funzione, così centrale e strategica in una società avanzata; sottraendosi ai tentativi di ridurli a meri “facilitatori” e compilatori di questionari; ritrovando il piacere di trasmettere conoscenze costruendo la capacità di conoscere per la via maestra, che è quella di suscitare la passione di apprendere, la curiosità per quel che non si sa; utilizzando gli strumenti migliori e selezionando tra i libri quelli che mirano a quel fine e non all’affermazione di ideologie didattico-pedagogiche. In fin dei conti, se a qualcosa deve servire l’autonomia scolastica non è ad affermare mediocri autonomie gestionali, ma a promuovere un insegnamento autentico, libero e non asservito all’ideologia. Se questo movimento culturale prenderà forma, la revisione dell’assetto normativo e programmatico ne sarà una conseguenza inevitabile.


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