Unità: Memorie di un Maestro elementare
Mario Lodi
di Stefania Scateni
«Anni fa, in una scuola elementare, domandai ai bambini quali erano i loro sogni per il futuro. Ha risposto subito Massimo: “Diventare miliardario!”. Io ho detto allora: “Che cosa ne fai di tutti questi soldi?” E lui: “Due belle ragaze, due automobili nuove, ed essere così il più desiderato del paese”. Un sogno condiviso dagli altri bambini, che ci fa riflettere. Ecco, questo è il modello che gli abbiamo dato scegliendo come premier una persona che è diventata miliardaria. Oggi è difficile educare perché il nostro impegno di formare, a scuola, il cittadino che collabora, che antepone il bene comune a quello egoista, che rispetta e aiuta gli altri, è quotidianamente vanificato dai modelli proposti da chi possiede i mezzi per illudere che la felicità è nel denaro, nel potere, nell’emergere con tutti i mezzi, compresa la violenza. A questa forza perversa noi dobbiamo contrapporre l’educazione dei sentimenti: parlare di amore a chi crede nella violenza, parlare di pace preventiva a chi vuole la guerra. Dobbiamo imparare a fare le cose difficili, come disse Gianni Rodari in una delle sue ultime poesie: parlare al sordo, mostrare la rosa al cieco, liberare gli schiavi che si credono liberi».
Mario Lodi ci racconta uno dei tantissimi dialoghi che ha avuto con i bambini. Ne ha vissuti così tanti, costantemente, quotidianamente, che sarebbe impossibile quantificarli. Perché Mario Lodi, maestro per tutta la vita, è un maestro speciale. Perché sa che i bambini sono portatori di cultura. Perché ha ridisegnato insieme ad essi la scuola e le sue metodologie. Perché dopo l’orrore del fascismo, del carcere per motivi politici e della guerra, ha deciso di adeguare l’insegnamento nella scuola pubblica ai principi della Costituzione repubblicana. Perché ha cominciato a insegnare nel ’48 e ha continuato ad ascoltare i ragazzi anche dopo la pensione (ha lasciato il lavoro nel 1978), costruendo laboratori, luoghi e occasioni di lavoro creativo, biblioteche, riviste, mostre e libri realizzati con i ragazzi, fondando associazioni, come «La Casa delle Arti e del Gioco», tuttora attiva a Drizzona, nel cuore della pianura padana.
Mario Lodi (classe 1922) è un vecchio maestro senza essere un maestro vecchio stampo. E dall’alto della sua esperienza e della sua autorevolezza, guarda all’attuale riforma scolastica con sospetto e disaccordo. Trova l’idea di ripristinare sia il grembiule che il voto numerico una trovata ipocrita: un grembiule non è che una maschera che copre le diversità; il voto non è in grado di fornire una valutazione della complessità di un individuo qual è un bambino.
Mario Lodi non è un agit prop e nemmeno un ex sessantottino, è un signore anziano con un’esperienza invidiabile, soprattutto umanamente. È stato un «maestro unico» perché ha stravolto le vecchie regole della scuola, ha proposto ai suoi ragazzi un modello democratico dell’insegnamento. È sempre riuscito a vedere in loro la luce, «la scintilla del piacere di imparare», cercando di tenerla in vita, nutrirla, rinfocolarla. E ha sempre dialogato con i suoi alunni, fosse per la scelta di buoni libri di lettura o per la condivisione di esperienze, sentimenti, paure. A suo modo è stato un winnicottiano di ferro e cuore. Lo psicoanalista e pediatra inglese valutava i futuri allievi dei suoi training psicoanalitici dalla postura che questi assumevano di fronte a un bambino: se si mettevano spontaneamente alla stessa altezza del piccolo, che fosse seduto per terra a giocare o su una sedia, Winnicott, sorridendo fra sé e sé, intuiva che quell’allievo aveva la stoffa per diventare un buon psicoterapeuta infantile. Mario Lodi è stato anche un maestro unico, perché ha lavorato in una scuola elementare che prevedeva questo.
Le chiedo, quindi, che effetto le fa questo ritorno al passato?
«Mi piacerebbe, prima o poi, dedicare una linga riflessione sul maestro unico, perché lo considero l’uomo più colto della repubblica, più dei ministri, più dei politici. Perché un maestro deve interessarsi di tutto quello che progredisce nel campo del sapere, deve essere sempre informato, deve leggere. In questo modo si fa un’idea del mondo in cui vive e dona, dispensa, tutto quello che riceve dalla cultura. Il maestro unico è obbligato a diventare colto, a non essere immerso nella scuola con un ruolo secondario».
Lei è d’accordo quindi con il ministro Gelmini?
«No. Con ciò che dico non voglio venire incontro al ministro, accettando la sua idea. Desiero però delineare la figura del maestro, che è fondamentale per la formazione dei ragazzi. Se poi sono in tre a diventare “maestri unici”, condividendo i rispettivi compiti, questo mi va ancora meglio!
E del grembiule uguale per tutti cosa pensa?
«Si tratta di un grande problema: perché mettere un grembiule uguale per tutti quando sappiamo che i bambini sono tutti diversi? Perché nascondere le diversità, visto che ci sono? Perché non cogliere in esse la ricchezza dello scambio reciproco?»
Il voto?
«È un ritorno indietro alla scuola per analfabeti, che era quella del “leggere scrivere e far di conto”. Mentre invece abbiamo bisogno, nella complessità del mondo di oggi, di conoscere un po’ di più. Io non ho mai applicato il voto, non ho mai pensato di immaginare un numero al posto della cultura di un bambino. Ho sempre usato la valutazione su quello che sapeva fare. Ma erano gli stessi bambini che capivano cosa avevano imparato e cosa non avevano imparato. Già quarant’anni fa sceglievamo insieme i libri da leggere. E quei libri sono ancora validi oggi, appassionano ancora i bambini. Mi domnando, allora, se i bambini di oggi siano diversi da quelli di allora o non siano cambiati affatto. Sono cambiati nei bisogni ma sono gli stessi negli affetti. Hanno bisogno di affetto, di ascolto. Infatti ho fondato tutto sulla parola. Pensate che cosa grande sia la capacità di parlare. Quando i bambini vengono a scuola sanno già parlare. Ma non gliel’ha insegnato nessuno, hanno fatto da soli. Tutti i bambini, di tutte le lingue fanno da soli. Hanno quindi una pedagogia, ricavano dal loro ambiente gli elementi culturali. E noi cosa dobbiamo fare con questi bambini che sanno già parlare? Li facciamo parlare, e facendo questo impostiamo le fondamenta della società democratica: dove c’è il rispetto di chi parla. Che deve essere ascoltato e non interrotto come invece fanno in televisione. Ma far questo è faticoso, perché i bambini non ci stanno, si interrompono continuamente. Si può fare invece. Perché i bambini vivono otto anni nella scuola e, in questo lungo percorso, piano piano, possiamo arrivare alla democrazia perfetta nella scuola».
Per raggiungere questo obiettivo ci sarebbe bisogno di scuola che sia migliore della società, visti i tempi che corrono...
«Nella nostra società purtroppo, abbiamo sostituito il concetto di Dio con quello del potere. E i problemi della società moderna sono anche i problemi della scuola. Perché tutto dipende dai modelli che la scuola offre. Se noi abbiamo una società in disgregazione, i valori che tenevano insieme una società non ci sono più. Non ho intenzione di difendere ciò che è antiquato, passato. Ma prendiamo ad esempio i vacchi valori del matrimonio, della famiglia. Ora abbiamo a che fare con bambini che si sentono disadattati, senza riferimenti certi, figli di genitori divorziati, figli soli... Questa infanzia che soffre, noi, come scuola, come la trattiamo, qual è la nostra strategia? Oggi viviamo in una società multietnica, i bambini lo sanno, ma vedono alla televisione campi rom incendiati, persone deportate sui carretti... cosa può fare l’insegnamento per orientare i nostri ragazzi? Questo, e il tanto altro che fa parte della cultura che posto e quale posto ha nella scuola? Ci sono poi altri aspetti che bisognerebbe approfondire, ad esempio l’idea della scuola universale di Gianni Rodari: tutto è scuola, tutto è un libro da leggere... Di fronte ai problemi reali, grandi, concreti della scuola, le idee della Gelmini sono pettegolezzi, frattaglie».